Non scopriamo certo oggi come la letteratura del continente latinoamericano sia un fertile bacino per il lettore avvertito e raffinato. Il boom che il mercato editoriale italiano ha vissuto negli ultimi anni, con la pubblicazione sempre più numerosa di titoli (secondo stime accreditate, circa 80.000 ogni anno), non ha tuttavia ancora consentito un recupero significativo di alcune tra le voci più importanti del Sud America, come ad esempio quella dello scrittore ecuadoriano Jorge Icaza. Eppure Icaza, insieme a José María Arguedas, a Miguel Ángel Asturias e al poeta César Vallejo, è stata una delle figure più illustri dell’indigenismo letterario del Sud America. 

Nato a Quito nel 1906 (dove morirà nel 1978), il futuro scrittore abbandona il progetto di diventare medico a causa della morte prematura del patrigno e della madre (il padre naturale era scomparso quando Icaza aveva solo tre anni). Con il senno di poi, fu probabilmente un segno del destino perché Icaza entrò nel corso di declamazione al Conservatorio di musica per essere in seguito assunto dalla Compagnia Nazionale d’Arte Drammatica. In quell’ambiente conobbe la sua futura moglie, Marina Moncayo, stella della troupe, iniziando a scrivere opere teatrali che ottennero un certo successo (El intruso, 1928; La comedia sin nombrem 1929; Por el viejo, 1929). Lo sfruttamento dei miserabili, i conflitti razziali, la spietata durezza della lotta per la vita delle classi oppresse, questi i temi caratteristici della produzione di Icazam che ritroviamo anche nelle opere degli anni successivi. 

La raccolta di racconti Barro de la Sierra (1933) inaugura un vasto affresco della vita indiana. Il paesaggio è stilizzato con pochi tocchi brutali, i personaggi distorti come dure caricature. La sete, l’esodo, la prigione, l’inferno della malattia e della povertà, la stanchezza e la morte, sono alcuni dei motivi ricorrenti di scene atroci, dove la civiltà dell’uomo bianco gareggia con la natura ostile per distruggere e prevaricare i deboli. Oscuramente, però, emerge il presentimento di una possibile unione di lavoratori: la visione del socialismo di José Carlos Mariátegui viene in aiuto di una razza in agonia che, secondo l’espressione dell’autore, “si è diluita” nelle classi sociali così come, poco più tardi (1941), accadrà agli indio inurbati di Arguedas in Yawar fiesta.

Pubblicato nel 1934, Huasipungo è il capolavoro dello scrittore. L’editore Elliot ne ha meritevolmente riproposto qualche anno fa una nuova traduzione, fornendo al pubblico italiano l’occasione di acquisire dimestichezza con la scrittura di Jorge Icaza. Tradotto in più di quaranta lingue, questo romanzo ebbe un successo clamoroso e consolidò la reputazione dello scrittore. La storia racconta di un gruppo di indiani costretti dal proprietario terriero Don Alfonso Pereira a costruire una strada attraverso la foresta a beneficio di un’azienda nordamericana. Questo vero e proprio latifondista feudale, tornato con la famiglia e la servitù ai suoi possedimenti vicini al paese d’origine sia per nascondere la gravidanza irregolare (con un “cholo”, un meticcio di origine india) della giovane figlia Lolita, sia per ripianare i suoi debiti mettendo a frutto ed allargando con nuovi acquisti le sue proprietà, non mostra il minimo rispetto per questo bestiame umano e la rivolta scoppia quando vuole togliere agli indios i loro miserabili appezzamenti di terra con le loro capanne, gli huasipungos, per costruire le case degli ingegneri bianchi. Le truppe assoldate per proteggere gli interessi dei gringos intervengono; un massacro stermina gli indios che soccombono al grido “Ñucanchic huasipungo” (“l’huasipungo è nostro”).

L’impassibilità della narrazione, i dialoghi laconici e graffianti che fanno ampio ricorso al discorso diretto, l’erotismo misto a violenza estrema, il ritmo rapido e scarno, tutto contribuisce a dare a questo libro una tensione drammatica che aumenta fino alla strage finale. Icaza si aspettava molto dalla forza persuasiva del suo romanzo per ristabilire più giustizia nel suo paese e ammise a questo riguardo di essere rimasto deluso; ma si dichiarava felice dell’eco che aveva trovato ad altre latitudini e del risveglio delle coscienze che aveva provocato in tutta l’America e oltre.

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