Pianista da bar di New York, Al Roberts decide un giorno di lasciare tutto alle spalle per raggiungere la sua fidanzata, che è andata in California per diventare attrice. Durante il suo viaggio in autostop, accetta il passaggio di un uomo, un certo Haskell, che gli offre la possibilità di prendere il volante per riposarsi. Quando la pioggia inizia a cadere e Roberts si ferma per alzare la capote, Haskell cade stecchito dalla macchina! Dopo aver scoperto che il compagno di viaggio aveva con sé una grossa somma di denaro e convinto di trovarsi in una situazione senza uscita, Al si libera del corpo e usurpa l’identità di Haskell per tornare in California. Durante una sosta ad un distributore di benzina, decide di far salire un’autostoppista. Ma un altro colpo di scena lo aspetta, perché la sconosciuta conosceva molto bene Haskell e i suoi affari poco puliti…

Quando Detour – Deviazione per l’inferno uscì nelle sale americane, i parametri di riferimento del noir erano già stati stabiliti. I principali codici narrativi o estetici che, nel decennio a venire, alimenteranno una quantità inestimabile di produzioni, mettono al centro della vicenda personaggi dalla moralità variabile, alle prese, più o meno loro malgrado, con una spirale criminale spesso fatale, in un’atmosfera vaporosa (in parte ereditata da tradizioni formali tedesche o dell’Europa dell’Est) che assumeva la soggettività di punti di vista fino a navigare ai confini dell’onirico o della fantasmagoria. Questa esplosione dei soggetti noir attirò l’attenzione anche degli studi più piccoli che avevano l’occasione di realizzare B-movie a basso budget che tuttavia garantivano una presa su un ampio pubblico. Per circa dieci anni furono prodotti numerosi film che non avevano certo lo scopo di segnare la storia della settima arte ma che, a volte, attraverso la semplicità dei loro espedienti, riuscivano a raggiungere una forma di pura quintessenza: Detour è probabilmente diventato, nel tempo, l’esempio radicale e capitale di queste serie B al limite del (relativo) prodigio e, se non sembra ragionevole collocarlo allo stesso grado di successo dei capolavori più emblematici del genere, rimane un esempio affascinante del modo in cui, dai vincoli di bilancio, può emanare una brillantezza singolare.

Perfino la realizzazione del film sembra partecipare di una certa aura mitica. Il romanzo di Martin Goldsmith, scritto nel 1939 sotto la chiarissima influenza di James M. Cain, era stato acquistato nel 1944 da Leon Fromkess, che dirigeva la Producers Releasing Corporation (PRC), una piccola azienda squattrinata abituata a produzioni di basso costo. Appena firmato il contratto, Goldsmith venne a sapere che l’attore John Garfield aveva letto e apprezzato il libro e immaginò che la Warner avrebbe cercato di recuperane i diritti. Si dice che non fu senza un certo piacere che Fromkess liquidò Warner per affidare il progetto, come ulteriore affronto a questi onnipotenti studi, a Edgar G. Ulmer. Questo regista di origini mittleuropea (Ulmer era nato a Olomuc, nell’attuale Repubblica Ceca) era stato persona non grata presso le major dopo aver rubato sua moglie al cugino di Carl Laemmle, il capo della Universal.

Edgar G. Ulmer

Ulmer si era costruito una solida reputazione come regista capace di realizzare film esemplari in tempi record e con budget irrisori. Con appena sei giorni di riprese (pianificati) e un budget totale (inclusi i diritti) di appena 115.000 dollari, la sfida era particolarmente ardua ma Ulmer l’ha gestita brillantemente. Innanzitutto rimuovendo alcuni punti della trama dal romanzo di Goldsmith senza impoverirla, poi girando le scene ambientate nel mezzo del deserto dell’Arizona vicino agli studi californiani della PRC e alla fine, invece di andare a girare a New York, utilizzando la macchina del fumo per le sequenze notturne che avrebbero dovuto svolgersi lì, riducendo la città a un isolato buio e opaco. Questi trucchi cinematografici, associati a una costante inventiva formale, permettono al film di mantenere la sua linea con un rigore che incute rispetto. 

Confinato nel cervello tormentato di uno dei personaggi più sinistri della storia del cinema (sfortuna largamente rafforzata da una straordinaria capacità di prendere solo decisioni sbagliate), Detour prende la forma di un delirio paranoico, di un incubo in cui ogni sequenza sprofonda sempre più il protagonista verso l’abisso. Al di là delle richieste della commissione di censura dell’epoca (per la quale ogni crimine doveva essere punito), anche l’ultima inquadratura del film obbedisce a una logica: Roberts non ha alcun motivo di essere arrestato da una pattuglia di polizia ma, come indica la voce fuori campo, “il destino finisce sempre per puntarti il ​​dito contro”. La pattuglia non è lì perché un’indagine l’ha portata da Roberts, ma perché deve essere lì, o anche perché Roberts immagina che debba esserci.

Poco più di un’ora, lineare e graffiante: bastava poco per vedere cambiare per sempre il destino di un ragazzo qualunque. Detour, ovvero l’incubo accessibile a tutti: l’obiettivo dell’europeo Ulmer è dimostrare agli americani – che hanno cara una visione manichea del mondo e il mito del self-made-man – che il bene e il male sono adiacenti e che al destino spetta inevitabilmente l’ultima parola. Affinché lo spettatore percepisca chiaramente la dimensione eminentemente soggettiva del film, la sua natura tutta interiore, Ulmer si avvale della formidabile efficacia di una voce fuori campo lamentosa ma anche di effetti formali particolarmente significativi, come certi flashback o visioni dal taglio quasi espressionista che mostrano chiaramente fino a che punto ciò che appare sullo schermo passa attraverso il filtro della percezione del personaggio.

Tra gli aspetti notevoli del film, vanno sicuramente ricordati i due attori. La femme fatale Vera (interpretata da Ann Savage) ci appare soprattutto come uno dei personaggi più imprevedibili – e quindi meno riducibili a uno stereotipo – della storia del cinema poliziesco. Operando su repentini cambi di registro, con una varietà di espressioni tale che viene da chiedersi se si tratti davvero, da un’inquadratura all’altra, della stessa attrice, compone un personaggio quasi psicopatico, velenoso e autoritario, seducente e allo stesso tempo perfettamente ripugnante, tanto commovente nella sua angoscia, quanto detestabile nella sua ignominia. Il protagonista Tom Neal fornisce un’interpretazione virile e febbrile più che onorevole. Ma poiché Detour è soprattutto una favola del destino, è probabilmente il destino dell’attore che ha successivamente contribuito a rafforzare la dimensione mitica del film. Infatti, qualche anno dopo il film di Ulmer, troviamo il nome di Neal nelle news una prima volta per aver rotto il naso a un rivale in amore (l’incidente pose fine alla carriera di attore) e, una seconda volta, nel 1961, quando uccise accidentalmente la sua terza moglie e finì imprigionato.

Grazie al suo duo di interpreti principali Detour ha impresso “una svolta proletaria” al genere. Con la loro recitazione istintiva, priva di glamour, e dialoghi brutali, hanno inaugurato la consuetudine dei film noir di scendere in fondo alla vita quotidiana dell’America più mediocre. 

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