1870. Di ritorno dalla Guerra Civile, stanco di questo clima di violenza e del sangue che deve aver versato, Matt Fletcher (Marlon Brando) ora desidera radicarsi e fondare un ranch, con l’intenzione che il suo Appaloosa diventi il primo di una linea di cavalli di razza che crescerà con la famiglia del suo amico Paco, con il quale ha vissuto prima di partire per combattere. Arrivato nella città di confine di Ojo Prieto, si ritrova involontariamente attaccato dallo psicopatico leader di una banda Chuy Medina (John Saxon) che crede che Matt abbia cercato di importunare la sua “fidanzata” (Anjanette Comer). Quest’ultima ha inventato questa bugia con lo scopo di distrarre Chuy e finalmente poter fuggire dalla reclusione in cui si trova (è stata venduta a lui quando aveva appena quindici anni). Cercando di scappare con il cavallo di Matt, viene catturata dai pistoleri di Chuy; per non perdere la faccia, Chuy fa credere che la donna stesse “provando” il cavallo, con l’intenzione di acquistarlo se il test avesse avuto successo. Ma Matt rifiuta assolutamente di separarsene, il che infastidisce irrimediabilmente il bandito messicano. Poco dopo, quando Matt è giunto a casa dei suoi amici con i quali ha deciso di stabilirsi definitivamente, Chuy arriva, sottrae l’Appaloosa e umilia il suo proprietario torturandolo e lasciandolo quasi morto. Matt ora ha una sola idea in mente: riavere indietro il suo purosangue…
A sud ovest di Sonora (The Appaloosa, 1966) è un film western diretto dal poliedrico regista canadese Sidney J. Furie (Ipcress, Colpo su colpo, Al di là di ogni ragionevole dubbio, Lo spavaldo,
La signora del blues, Entity…) ed è un perfetto esempio per dimostrare che la reputazione negativa che aleggia intorno ad un’opera dovrebbe autorizzarci a dare sempre un’occhiata di persona, soprattutto in questo caso quando nutriamo un’ammirazione sconfinata per il suo attore protagonista, di cui questo è il secondo western. Marlon Brando aveva già affrontato il genere sia davanti che dietro la macchina da presa con I due volti della vendetta (One-Eyed Jacks, 1961), un western piuttosto insolito per l’epoca e che, nonostante fosse un po’ privo di emozione e la costruzione a volte sembrasse caotica, fu comunque ben realizzato: un film ambizioso, maturo e affascinante su un’ossessiva ricerca di vendetta che diventa l’unica ragione di vita per il suo protagonista principale. Un’opera completamente distrutta dai produttori, un flop critico e finanziario.
È accaduto lo stesso per The Appaloosa, un film che ha avuto scarso sostegno critico, tranne che quello di Pauline Kael negli Stati Uniti. A quel tempo il “western all’ italiana” non aveva ancora attraversato l’Atlantico, e lo stile del regista destabilizzò gli spettatori perché era fortemente ispirato da quello di registi come Sergio Leone. Ritmo lento e ieratico, inquadrature bizzarre o introverse, collocazione precisa dei personaggi nell’inquadratura, uso completamente nuovo del grande formato con aperture incongrue di volti, animali o oggetti in primissimo piano, fotografia eccessivamente contrastata (di Russell Metty) soprattutto in esterni notturni col cielo dall’azzurro intenso. La violenza esacerbata dei comportamenti, i volti sudati e deformati da smorfie, i vestiti e i set impolverati.
All’epoca la maggior parte dei commentatori parlò di esasperato manierismo e rinfacciarono come un’onta il collegamento con lo “spaghetti western” che – e il “nomignolo” lo dimostra – all’epoca era ben lungi dall’avere una buona stampa. Se le cose sono poi cambiate per quanto riguarda l’esordio di Sergio Leone, The Appaloosa non è stato analogamente rivalutato nel frattempo.
Ed è un peccato perché se il film di Sidney J. Furie ricorda davvero nella forma i western italiani dei primi anni ’60, non lo è nella sostanza, non possedendone né il cinismo né la violenza morale, rivelandosi, al contrario, un western estremamente toccante con personaggi principali rimasti indietro nella vita che hanno sofferto in gioventù, e che si conclude con un lieto fine inaspettato. La raffinata sceneggiatura di James Bridges e Roland Kibbee (Vera Cruz), con le sue linee guida cristalline, rivela una semplicità infantile. Un uomo, disgustato dalla guerra, torna a casa con l’obiettivo di fondare un allevamento di cavalli utilizzando il suo purosangue. Sfortunatamente, a causa di una donna di cui poi si innamorerà, si troverà inaspettatamente in conflitto con un bandito messicano che tiene la regione sotto il suo controllo e che gli ruberà il cavallo Appaloosa. L’uomo non smetterà mai di cercare di riprenderselo, senza avere inizialmente alcuna volontà di uccidere i suoi avversari, nonostante la loro brutalità. Alla fine dovrà affrontare tutto questo, ma non per pura vendetta, piuttosto per una questione di sopravvivenza. La giovane donna a causa della quale si compie la sua disgrazia era stata venduta in gioventù dai suoi genitori al formidabile fuorilegge; ed è a causa del suo tentativo di fuga dal suo “padrone” e amante che scatenerà l’odio del bandito messicano nei confronti dello yankee. Il percorso di questi due “esclusi” finirà per convergere nel teso ma luminoso climax finale che si svolge in mezzo al bianco immacolato di un superbo paesaggio innevato. La coppia così formata potrà iniziare una nuova vita all’insegna della pace e della tranquillità.
Miscela atipica di violenza oggettivamente sadica e malinconia intrisa di grande dolcezza, il film di Furie sconcerta anche per il suo ritmo insolitamente lento, i suoi lunghi periodi di silenzio e la sua ambientazione piuttosto formale mentre la storia e i diversi elementi della sceneggiatura lo rendono piuttosto diverso dai western italiani. A questa stranezza/originalità contribuisce anche l’interpretazione di Marlon Brando. Alcuni detrattori dell’attore amano dire che aveva accettato di fare il film solo per poter pagare gli alimenti alle sue due ex mogli e, avendo constatato di non andare d’accordo col regista sul set, si limitò minimo indispensabile, accontentandosi di borbottare e mostrando sullo schermo la sua noia e la sua totale mancanza di motivazione. Eppure, Brando sta facendo sullo schermo… Brando, vale a dire una miscela unica (e semplicemente geniale), paradossale e perfettamente controllata di underplaying e istrionismo. Appena Brando emette una battuta di dialogo lo spettatore rimane incollato alle sue labbra, ogni suo gesto o ogni alzata di sopracciglio trasmettono alla perfezione i sentimenti. Il suo personaggio di reduce da tutto, che ora aspira solo alla tranquillità e determinato a fare di tutto per raggiungerla, è assolutamente commovente. Essendo il suo cavallo in qualche modo un simbolo di speranza nella possibilità di una nuova vita che sogna, è ovvio che farà di tutto per riaverlo, anche a costo di subire ancora una volta violenza quando, per causa sua, il suo vecchio amico pagherà il prezzo della sua decisione e della sua attuazione. Toccanti sono anche i rapporti che intrattiene con il suo ospite e la sua famiglia (ha avuto una storia con la moglie di Paco come John Wayne in Searchers?), con il vecchio che lo accoglie e si prende cura di lui, e soprattutto con la “fidanzata” del suo nemico (Anjanette Comer).
Per affrontare Brando e contrastare l’interpretazione tutta interiore di quest’ultimo, gli autori hanno avuto la buona idea di chiamare John Saxon che ci offre qui una performance molto più estroversa e quasi altrettanto memorabile nel ruolo del rancher crudele e sadico. Il duo che formano è colorito e le loro intense sequenze di confronto sono fortemente accattivanti fino a un finale brusco e frettoloso ma in fondo molto realistico e credibile; una sequenza finale che si svolge in paesaggi innevati mentre fino ad allora ci ci muoveva in regioni desertiche, aride o polverose. Saxon è sempre stato un attore sottovalutato, forse per la sua scelta di recitare moltissimo in Italia, in western-spaghetti, poliziotteschi e thriller
Da notare anche una scelta di ambientazioni naturali assolutamente notevole che Russell Metty fotografa con straordinario talento, molti scatti che si rivelano davvero sontuosi! Non è da meno la colonna sonora originale di Frank Skinner, composta in parte da ritmi tradizionali messicani. Meno apprezzabile perché esagerata (questo sì un cliché italico) l’accanimento sui volti beffardi dei banditi messicani, l’interpretazione scandalosa di Emilio Fernandez (inquietante futuro Mapache in uno dei capolavori di Sam Peckinpah, The Wild Bunch: allora è meglio il nostro Mario Brega!) e alcune idee di inquadratura effettivamente un po’ gratuite e di maniera… Elementi però che non impediscono in alcun modo la tensione e l’immersione dello spettatore in questa storia d’amore, di redenzione e di ritorno alle origini.
In definitiva, un western ingiustamente evitato e disprezzato, per il suo aspetto roboante e per le sue influenze europee. Quando, se queste ultime sono effettivamente presenti, sono trasposte abilmente nel western classico senza che questa miscela sufficientemente innovativa diventi “disarmonica”. Non rivoluziona in alcun modo il genere, né rappresenta probabilmente l’apice del western ma, grazie soprattutto alla recitazione destabilizzante di Marlon Brando e ad una potente identità visiva, è un’opera curiosa e umile con una regia insolita, molto chiara nella narrazione e un tono morbido/barocco abbastanza unico. Da scoprire o riscoprire.
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