“Who’s the blonde?” era la frase che serpeggiava nell’oscurità dei cinema d’America, nel 1950, quando uscì The Asphalt Jungle, regia di John Huston. Eppure “la bionda” appariva per pochi attimi, in un paio di scene, quando il suo caro zio (Louis Calhern) deve fare i conti con la legge e con gli emissari incaricati di eseguirla. Eppure, nel 1947, la 20th Century-Fox non aveva rinnovato il suo contratto standard di 6 mesi, che avrebbe dovuto forse terminare l’appena incominciata carriera d’attrice. Eppure, è andata diversamente, perché dopo The Asphalt Jungle (e anche All About Eve – 1950) l’immagine folgorante e smaltata della bionda si sarebbe impressa indelebilmente nella mente degli uomini; sia in Mongolia che a Capo di Buona Speranza, le vesti bianche sollevate dall’aria della metropolitana e la fulgida chioma non tradiscono nessuno: chiunque riconosce Marilyn Monroe. È, pertanto, un’immagine che c’è sempre stata, fin dalle origini? In un noto manuale di sceneggiatura – Save the Cat! di Blake Snyder – si afferma con una certa semplicità tipica degli statunitensi, che non s’accorgono delle ripercussioni o dei fondamenti di ciò che dicono, che Marilyn Monroe è la rappresentazione della dea dell’Amore. Di Afrodite, dunque, che, secondo una versione del mito, nacque da Urano e dalla schiuma del mare. Da quali acque nacque, quindi, la dea dell’Amore d’oltreoceano, che avrebbe cinto il mondo uscito dalle rovine delle guerre mondiali? Dopo lo scandalo del calendario per cui Monroe posò nuda nel 1949, e venuto alle cronache nel 1952, che accrebbe la sua popolarità piuttosto che diminuirla, tre film la videro partecipe – Clash by Night (1952), We’re Not Married! (1952) e Don’t Bother to Knock (1952); soprattutto in quest’ultimo, la parte della babysitter disturbata Nell è significativa a tal riguardo. C’è, infatti, una scena che è uno spartiacque e che proietta Norma Jean a quella che sarà la sua carriera a venire. Nell è nella camera dei signori Jones, la loro figlia a letto; col ciglio un po’ delirante, si appropria indebitamente dei gioielli e del profumo della signora Jones. Il film è in bianco e nero, ma appena indossa i grossi pendenti è come un’allucinazione: emerge smagliante, di fronte allo specchio, il riflesso di qualcosa di luminosissimo: Norma Jean è mutata, è diventata Marilyn Monroe: la metamorfosi è irreversibile. Passa però un aereo, che nel film dovrebbe rievocare la morte dell’amato Philip durante la guerra, e che nella vita annuncia un cattivo presagio: quanto avviene non sarà senza prezzo. Così, casualmente, una delle canzoni intonate da Anne Bancroft (che interpreta Lyn Lesley) all’inizio del film parla proprio di Summerjourneys to Niagara e si arriva, quindi, ai confini degli Stati Uniti.
Niagara (1953), diretto da Henry Hathaway, fu indubbiamente il film che consacrò Marilyn Monroe, salita da allora su nell’Olimpo di Hollywood. Subito il fragore spumoso delle cascate sommerge il pubblico e, nel contrasto con una piccola figura, indica chiaramente che una potenza soverchia l’uomo. Il marito di Rose torna a casa affranto, dopo una notte passata insonne; la moglie è nel bungalow, dove risiedono, come perenni turisti, senza radici. E la macchina da presa mostra la donna: non dorme affatto, è distesa a letto per metà coperta, mentre fuma una sigaretta – era davvero, come dicono, completamente nuda durante le riprese? Il technicolor fa esplodere i boccoli tinti d’oro, le labbra turgide rosse, il neo sulla pelle vellutata come di tessuto prezioso, tra le lenzuola che paiono grezze, increspate per le morbide forme, e che richiamano la spuma del mare, anzi delle cascate del Niagara: dal loro getto incessante è sbocciata lei. L’epifania, però, è subito macchiata: quando il marito è sdraiato, la bionda Rose, infantile, emette una smorfia di stizzo e si volta. La dea dell’Amore implica sensualità e anche assassinio. Sta di fatto che da questo momento, ogni altra scena del film in cui manca Rose – o meglio Marilyn Monroe – appare scialba, insipida e lo spettatore non aspetta altro che rivedere lei, nonostante Joseph Cotten e Jean Peters e le bellezze naturali del posto.
Fu così che i secolarizzati Stati Uniti d’America acquisirono la loro Afrodite, ancora una volta dall’acqua (ora precipitante); persino Hollywood aveva bisogno dei propri dèi. E man mano che il resto del mondo riemergeva dal tentativo di autodistruzione delle guerre mondiali, fioriva anche altrove il desiderio di una nuova religione, con propri simboli da non confondere con i precedenti, di fatto però identici, se non che trasposti in forme nuove e in particolare nelle immagini a colori del cinema.
Marilyn Monroe, l’Afrodite del nuovo mondo scaturita dalle cascate del Niagara, ingenua e vorace, marchettara e amorevole, come d’altronde la sua antenata, poggiava ad ogni modo su un essere umano, che divino non era. Norma Jean che, sola, aveva percorso il suo sogno di essere un’attrice, dovette fare i conti con il ruolo che lo strano corso della storia le aveva assegnato: era destinata a portare il peso della copia. Come un simulacro vivente, visse fino in fondo, lottando, il senso della scissione derivante dall’essere una “doppia” copia: della dea dell’Amore e di sé stessa. Infatti, Marilyn Monroe era, da un lato, l’attrice che studiava e agiva per affermarsi in quanto tale, fondando addirittura la propria casa di produzione1 e spostandosi a New York2, la città opposta a Los Angeles e cinematograficamente antagonista di Hollywood, con una sensibilità di poetessa3 e il desiderio di essere, in fondo, una madre; dall’altro, era la bionda patinata, mobilitatrice di masse, pura e credula come una bambina e allo stesso tempo fatalmente attraente, incapace di vivere senza il suo truccatore personale (Allan “Whitey” Snyder) e vestita in abiti attillati e strass scintillanti, pronta a illuminare gli occhi inebetiti dell’America e della Terra intera.
Un’opera cinematografica rappresenta, in parte, ciò che Marilyn Monroe visse sulla propria pelle. Vertigo(1958) di Hitchcock tratta dell’avvocato e poliziotto John Ferguson, per tutti Scottie (James Stewart), che, su incarico di un amico, sorveglia e pedina la moglie Madeleine, convinta di essere posseduta da un’altra donna, la defunta e antenata Carlotta Valdés. Ma la moglie dell’amico (Kim Novak), in realtà, è anch’essa la copia di un’altra donna, ossia della moglie vera, il tutto apparentemente a causa di un piano perverso che, infine, comporterà la morte di due persone. Evitando di dare troppe anticipazioni sul film, qui rileva evidenziare che elemento comune alle copie è la “biondità”4. La stessa biondità che è segno inconfondibile della Monroe, anche se in effetti “non era una bionda”5.
D’altronde, il tema della copia riporta nuovamente al mito greco e, nello specifico, alla “bionda” Elena, la più bella delle donne. Secondo una versione del mito, ripresa da Stesicoro e Euripide, Elena non fu mai rapita da Paride, ma visse nascosta in Egitto; Era la fece sostituire con un simulacro vivente, per ingannare Paride e vendicarsi di non essere stata scelta al posto di Afrodite, nella contesa fra le dèe da lui decisa; a Troia non giunse, dunque, che il suo simulacro. Ciò svela la vera natura di Elena, l’unica che nessuno oserebbe sostituire6, che viene rapita e che, anzi, deve essere dai Greci recuperata. La donna nacque allo schiudersi di un uovo di cigno, nel cui guscio bianco si rapprese la schiuma delle onde che originarono Afrodite; nello stesso guscio erano i Dioscuri, Castore e Polluce. Elena è, quindi, l’unica, sin dall’inizio legata all’essere gemella e alla scissione; del resto, l’unica “è la figura stessa del Doppio”7, che cela in sé la copia. Elena era sia corpo sia simulacro, esattamente come lo fu Marilyn Monroe. Analogie o coincidenze.
Non sapremo mai con certezza se Norma Jean subì più il proprio destino o, al contrario, contribuì desiderosamente a realizzarlo e, d’altro canto, non avrebbe alcuna importanza. L’immagine di Marilyn Monroe replicata in miriadi di poster, foto, oggetti, opere d’arte che abbelliscono le stanze più svariate di case, saloon, negozi per turisti, musei, ecc., e consegnata, nella sua forma maggiormente perfetta, al cinema, ricorda che c’è qualcosa di molto profondo che lega gli uomini e il mondo, sin dalle origini, anche nella nuova èra successiva alle guerre mondiali, che appare così diversa da ciò che l’ha preceduta, caratterizzata dall’indefinito moltiplicarsi delle immagini, delle copie. “Nella diva riprodotta in migliaia di esemplari si compie la maledizione platonica sulla copia. Ma la diva è una stella, e usurpa un luogo unico, inscalfibile, nel cielo.”8
1 La Marilyn Monroe Production, fondata nel 1955 insieme al fotografo e amico Milton H. Greene, che collaborò alla produzione di Bus Stop (1956) e produsse interamente The Prince and the Showgirl (1957). Marilyn decise di fondare la propria casa di produzione per avere maggiore libertà nella scelta dei ruoli e dei film da interpretare, stanca delle parti mediocri da sex symbol e della paga molto più bassa rispetto ai colleghi del suo calibro, in una mossa commerciale e politica eccezionale per una donna negli Stati Uniti degli anni ‘50.
2 Marilyn Monroe studiò il method acting con Lee Strasberg all’Actors Studio e divenne molto amica di Lee e della moglie Paula.
3 “Aveva l’istinto e il passo del poeta, le mancava il controllo”, disse l’amico e poeta Norman Rosten, così come Arthur Miller, drammaturgo e suo terzo marito, affermò che “Per sopravvivere, avrebbe dovuto essere più cinica, più distaccata dalla realtà. Invece, era un poeta all’angolo di una strada che cercava di recitare le sue poesie a una folla che voleva solo toglierle i vestiti di dosso”, entrambi citati in M. Monroe, B. Comment, S. Buchthal, Fragments: Poems, Intimate Notes, Letters, Farrar, Straus and Giroux, rispettivamente a p. 160 e 162.
4 R. Calasso, Allucinazioni Americane, Adelphi, p. 41.
5 J. C. Oates, Blonde, HarperCollins, p. 232, “Her problem wasn’t she was a dumb blonde, it was she wasn’t a blonde and she wasn’t dumb”.
6 A differenza, ad esempio, di Briseide, che Agamennone vuole che sia scambiata con Criseide.
7 R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, p. 144.
8 R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Adelphi, pp. 153-154.
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