Una parola misteriosa, affascinante, forse perché poco nota. E quasi intraducibile come le voci brasiliane tesão e saudade. Il duende è un termine centrale nella cultura e nella musica gitana e flamenca. Lo stato d’animo che il duende connota è, però, universale, trascende, quindi, i confini geografici da cui trae origine. Ecco la definizione di duende secondo un dizionario del flamenco (Vallardi): “letteralmente spirito. Termine che indica uno stato emozionale di rapimento estatico e di forte ispirazione nell’interprete, una sorta di trance, corrispettivo del tarab arabo e del feeling inglese”.
Come spiega Enrico di Pastena nella postfazione a Gioco e teoria del duende (Adelphi, 2007), conferenza tenuta da Federico Garcia Lorca (1899-1936) il 20 ottobre 1933 a Buenos Aires, la parola duende proviene dalla forma apocopata di dueño de una casa (padrone di casa)>duen de casa>duende) e nei più autorevoli dizionari spagnoli indica un folletto che infestava una casa o una dimora, sotto forma di bambino o vecchio. Secondo alcuni il “daìmon” della tradizione socratica è l’avo del duende.
Il duende è un fluido invisibile che ispira bailaores, cantaores e chitarristi flamenchi. Anzi, si può dire che il duende è l’anima del flamenco. Chi non ha ascoltato con partecipazione il canto e la chitarra flamenchi, non può capire fino in fondo che cos’è il duende. Ecco, una parola chiave: partecipazione. Il duende è una forza magica che compenetra la musica, la poesia, qualunque atto creativo rendendolo unico e potente come la voce di chi parla da un altro mondo, da un’altra dimensione. Una forma di passione scura e vitale al contempo, uno spirito che trasforma una performance in un incontro magico. Si può saper suonare bene, ma non avere il duende; e questo vale per tutte le arti; in poesia: Dante, Leopardi, Pascoli avevano il duende. Nel cinema: Anna Magnani aveva il duende; nella musica: Billie Holiday e Janis Joplin ne erano dotate; così come Mia Martini. Il duende, infatti, come tutte le forze magiche o indefinibili razionalmente, concorre a creare un carisma, uno speciale fascino.
Come scrive Federico Garcia Lorca, in Gioco e teoria del duende, l’ispirazione (Musa o Angelo) viene da fuori; il duende nasce dentro, è quasi come la manìa platonica descritta nel Fedro: un invasamento molto interiorizzato, controllato dall’arte. Il duende è qualcosa che prende sia il musicista o il cantante, ma coinvolge anche l’uditorio: se chi ascolta prova il duende -anche se non sa cos’è esattamente- sentirà un leggero accapponarsi della pelle, un sottile dolore spirituale, come un pianto cristallizzato, un silenzioso urlo scolpito nell’acuto del cuore! Perché non c’è nessuna forma d’arte che riesca a esprimere il dolore della vita, la sofferenza e i patimenti dell’amore, il senso della morte come il flamenco. Basta ascoltare una taranta. Paco de Lucia aveva il duende, Camaròn de la Isla aveva il duende. Mi fermo con l’elenco. Lascio la parola a Garcia Lorca:
“Il meraviglioso cantaor El Lebrijano, creatore della Debla, diceva: «I giorni in cui canto con duende, non mi supera nessuno»; un giorno sentendo Brailowsky che suonava un frammento di Bach, la vecchia ballerina gitana La Malena esclamò: «Olé! Questo sì che ha duende!», e si annoiò con Gluck e con Brahms e con Darius Milhaud; e Manuel Torres, l’uomo con più cultura nel sangue che io abbia conosciuto, quando ascoltò Falla in persona che eseguiva il suo Nocturno del Generalife, disse questa splendida frase: «Tutto quello che ha suoni neri ha duende». E non v’è verità più grande”.
A proposito di questa bellissima sinestesia tra suono e colore (nero, scuro), non è un caso che in alcune forme di flamenco il folletto del duende ti prenda con più forza, e sono quelle in chiave minore o fortemente cromatiche come il cante jondo, la siguiriya, la taranta, la soleá (se non trascolora in maggiore, uscendo dalla penombra o dalla vibrante oscurità della malinconia), la rondeña, come Cueva del gato di Paco de Lucia, la mineira, il fandango de Huelva.
Scrive Garcia Lorca: “angelo e musa vengono da fuori; l’angelo dà luce e la musa dà forme (Esiodo imparò da lei). Pane d’oro o piega di tunica, il poeta riceve le norme nel suo boschetto di allori. Il duende, al contrario, bisogna risvegliarlo nelle più recondite stanze del sangue. E bisogna respingere l’angelo, e sferrare un calcio alla musa, e perdere la paura del sorriso di violette che emana la poesia del Settecento e del gran telescopio sui cui cristalli si assopisce la musa, malata di limiti”.
I grandi artisti del sud della Spagna, gitani o flamenchi, che cantino, ballino o suonino, sanno che, se non arriva il duende, nessuna emozione è possibile. “Una volta la cantaora andalusa Pastora Pavòn, la Niña de los Peines, cupo genio ispanico, pari per capacità di fantasia a Goya o a Rafael el Gallo, cantava in una tavernetta di Cadice. Giocava con la sua voce d’ombra, con la sua voce di stagno fuso, con la sua voce coperta di muschio; e se la intrecciava nella chioma o la bagnava nella manzanilla, la perdeva in gineprai oscuri e lontanissimi. Ma niente; era inutile. Gli ascoltatori rimanevano zitti”. Ma poi, quasi all’improvviso, dopo che uno del pubblico disse una cosa in apparenza banale come “Viva Parigi!” (“come a dire: «Qui non ci interessano le capacità, né la tecnica, né la maestria. Ci interessa altro») la Niña de los Peines “si alzò come una pazza, affranta alla maniera di una prefica medievale, e si bevve d’un sorso un gran bicchiere di cazalla infuocato, e si sedette a cantare, senza voce, senza fiato, senza sfumature, con la gola riarsa, ma…con duende”.
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