Il giorno in cui torna dall’ospedale dopo un infarto, l’avvocato britannico Sir Wilfrid Robarts (Charles Laughton) riceve la visita di Leonard Vole (Tyrone Power), un individuo elegante quanto squattrinato sospettato dell’omicidio di Emily French, una ricca vedova brutalmente assassinata pochi giorni prima. Quando viene rivelato che Vole era l’unico beneficiario del testamento della vittima, Sir Wilfrid cerca di contattare Christine (Marlene Dietrich), la moglie dell’imputato, che solo attraverso la sua testimonianza può scagionarlo. Ma questa misteriosa donna tedesca, incontrata da Vole a Berlino, lungi dal sostenere il fragile alibi del marito, si rivelerà una testimone contro di lui…
All’origine di Testimone d’accusa (The Witness for the Prosecution, 1957), di Billy Wilder, c’è un racconto piuttosto breve che Agatha Christie scrisse nel 1924 e che adattò per il palcoscenico diversi decenni più tardi: la prima dell’opera ebbe luogo nell’ottobre 1953 a Londra, per essere poi rappresentata a Broadway l’anno successivo. Di fronte al successo di pubblico, i produttori di Hollywood si interessarono subito, prima L.B. Mayer, poi Gilbert Miller, e infine Edward Small, che alla fine si aggiudicò i diritti con l’aiuto di Arthur Hornblow Jr, che era diventato un produttore indipendente alla MGM e alla Paramount. I due dapprima affidarono la realizzazione del progetto a Sheldon Reynolds, regista televisivo, ma di fronte alla portata dell’adattamento, si rivolsero ben presto a Billy Wilder, che firmò nell’aprile 1956 un contratto del valore di 100.000 dollari e il 5% degli incassi.
Le riprese iniziarono ai Goldwyn Studios solo nel giugno 1957, poiché nel frattempo Wilder era stato molto impegnato nel montaggio di Arianna (Love in the Afternoon, 1957) e nello sviluppo di numerosi altri progetti, la maggior parte dei quali non vide mai la luce. Tuttavia, durante le riprese di Arianna, nell’agosto del 1956 Wilder iniziò a girare alcune riprese esterne di Testimone d’accusa prima ancora che fosse stabilito il casting, durante una vacanza a Londra con sua moglie Audrey.
Per quanto riguarda appunto il casting, e mentre Wilder avrebbe preferito Kirk Douglas, Small e Hornblow pensarono fin dall’inizio di affidare il ruolo principale del film a Tyrone Power. Soffrendo di depressione, sia per la sua carriera in declino che per la sua turbolenta vita personale, l’attore inizialmente rifiutò. Allora, nella testa dei due produttori, si materializzò la possibilità di concepire i coniugi Vole associando Ava Gardner a Jack Lemmon. Ma Wilder, che fin dall’inizio (nel racconto il personaggio è viennese) aveva pensato alla sua amica Marlene Dietrich, riuscì a convincerla alla fine del 1956, mentre il ruolo di suo marito l’avrebbe interpretato Gene Kelly. Tuttavia, per ragioni finanziarie, Small e Hornblow iniziarono a cercare nomi meno prestigiosi, e venne perfino menzionato un giovane attore britannico di nome Roger Moore… Alla fine, quello che era stata la loro prima scelta, Tyrone Power, ora entusiasta dell’idea di lavorare con Wilder e Dietrich, riconsiderò la sua decisione e accettò – per la cifra sbalorditiva di 300.000 dollari e una percentuale sulle entrate – un ruolo che alla fine si rivelò essere l’ultimo, poiché morì di infarto pochi mesi dopo la fine delle riprese.
Infine, per la somma molto più modesta di 75.000 dollari, il terzo ruolo centrale fu assegnato a Charles Laughton, grande amico di Billy Wilder. Questa terza scelta guidò il lavoro di riscrittura di Wilder e Harry Kurnitz, che trovarono la trama dell’opera interessante ma i suoi personaggi scheletrici. Innegabilmente, Laughton dà sostanza al personaggio di Sir Wilfrid, significativamente diverso da quello che appariva nella commedia. Infatti, l’avvocato immaginato da Agatha Christie è solido, autoritario e dinamico; mentre il Sir Wilfrid scritto da Wilder e impersonato da Charles Laughton appare fin dalla prima scena come un uomo anziano, di grande spirito ma di salute cagionevole, che torna dall’ospedale in seguito a un attacco di cuore e deve imperativamente evitare ogni iperattività professionale. Allo schema della trama originale che si concentra essenzialmente su Leonard Vole e sul suo destino, Wilder aggiunge così una drammatizzazione specifica per il personaggio di Sir Wilfrid che mette quindi in gioco la propria salute in questo processo.
Nel racconto, Vole incontra la vittima, Emily French, mentre la salva da un incidente stradale; nel film, la schernisce dolcemente mentre compra un cappello prima di incontrarla al cinema (davanti a un film su Jesse James, ruolo che Power aveva interpretato nell’omonimo film del 1939). L’“eroismo” del personaggio è quindi notevolmente messo sullo sfondo, soprattutto perché la composizione di Tyrone Power, non priva di ambiguità, evoca abilmente la miscela di seduzione, manipolazione e falso candore del personaggio.
Inoltre, il film ha l’ottima idea, per rafforzare l’aspetto della salute cagionevole, di creare un personaggio assente dalla pièce, Miss Plimsoll, l’infermiera personale di Sir Wilfrid, che ne sottolinea sia la fragilità fisica che la vivacità dello spirito, poiché i loro continui battibecchi forniscono al film alcune delle sue battute migliori. Il ruolo è affidato in modo piuttosto divertente a Elsa Lanchester, la signora Laughton nella vita – per una volta piuttosto sobria – e l’evidente complicità dei due coniugi traspare con empatia sullo schermo. Spassosa, poi, l’attrice Una O’Connor, la domestica della vittima, che riprende nel film, a 76 anni, il personaggio da lei interpretato sul palcoscenico, in uno degli ultimi ruoli di una carriera cinematografica che l’ha vista recitare in particolare ne La moglie di Frankenstein (The Bride of Frankenstein, 1935), di James Whale (al fianco, fra l’altro, della stessa Elsa Lanchester)…
Nelle sue memorie, Wilder è pieno di elogi per la performance di Laughton: «È il miglior attore con cui abbia mai lavorato (…). Nel 1957, durante le riprese di Testimone d‘accusa, ogni sera alle sei restavamo un po’ insieme, ci chiedevamo quale scena avremmo girato il giorno dopo e pianificavamo il programma. Un giorno Laughton era nel mio ufficio. E mentre stavamo bevendo un drink mi disse: “La scena che gireremo domani mi sembra particolarmente importante. Ho questo monologo. E mi è venuta un’idea. Che ne dici di…”. E iniziò a recitare la scena per me. Era brillante. Quando ebbe finito, dissi: “Va bene, faremo così”. E dopo una piccola interruzione, Laughton continuò: “Penso che potremmo anche…” E ricominciò a recitare la scena. Questa volta in una versione completamente diversa, ma ancora più convincente. E alla fine mi chiese: “La facciamo così?”. Risposi di nuovo: “Molto bene. Domani gireremo così”. E non esagero, questa cosa si è ripetuta finché non mi ha fatto vedere venti versioni della stessa scena. E ogni volta era un arricchimento, o almeno una variazione interessante rispetto alla precedente. Fino al momento in cui gli ho detto: “Va bene, questa era davvero la soluzione migliore, ed è così che gireremo domani. Non dimenticarlo”. La mattina dopo, poco prima dell’inizio delle riprese, venne da me, mi prese da parte e mi disse: “Ieri sera ho avuto un’idea. Ho immaginato ancora qualcos’altro. Penso che sarebbe più efficace”. Mi fece sentire la nuova versione. E aveva ragione, era ancora meglio. Laughton poteva approfondire il suo talento come un bambino contento in una scatola traboccante di giocattoli».
Laughton compone, infatti, un mirabile Sir Wilfrid, mescolando il rigore e la meticolosità del brillante avvocato (che allinea attentamente le sue pillole durante le arrighe avversarie) con la malizia del bon vivant che sfida la morte con truculenza (l’avvocato nella pièce accetta di difendere Leonard Vole perché per lui era una sfida professionale, il Sir Wilfrid del film è interessato solo perché il colloquio con l’imputato gli permette di isolarsi per fumare un sigaro, mentre durante il processo mette a punto ingegnosi stratagemmi per procurarsi il suo brandy). Per sua stessa ammissione, Laughton si ispirò a un avvocato britannico di nome Florance Guedella (l’avvocato di Dietrich) che giocherellava nervosamente con il suo monocolo durante ogni dibattimento; Laughton utilizza questo espediente per creare una tecnica di interrogatorio specifica per Sir Wilfrid che caratterizza magnificamente il personaggio.
Grazie all’amicizia incrollabile tra Laughton e Wilder (questo film fu curiosamente la loro unica collaborazione), l’atmosfera sul set era molto rilassata. Elsa Lanchester e Marlene Dietrich si alternavano per preparare tanti piatti prelibati a Laughton: l’abilità culinaria di Dietrich portò Wilder a dire che “gli uomini tolleravano le sue gambe solo a causa delle sue abilità culinarie”. Ma al di là di questi aneddoti cinematografici, Wilder rimase colpito dalla spessore della prestazione di Marlene Dietrich, che iniziò a comportarsi “come se tutta la sua carriera dipendesse da questo film”. Il ruolo di Christine Vole era per lei una sfida entusiasmante perché offriva all’attrice una doppia direzione: da un lato capitalizzava la mitologia dietrichiana durante una sequenza berlinese (che richiese 145 comparse, 38 stuntmen e un budget specifico di 90.000 dollari) nella quale l’attrice offre un numero di cabaret che termina con l’esibizione delle sue leggendarie gambe; dall’altro offrendole l’opportunità di offuscare un po’ la sua immagine di fredda manipolatrice esplorando aspetti più complessi della sua personalità.
Inizialmente fedele a questo archetipo della bionda fatale (coerente con la sua immagine di donna calcolatrice, distante, implacabilmente spassionata, ruolo che aveva più o meno già interpretato per Wilder in Scandalo internazionale/A Foreign Affair, 1948), il personaggio di Christine poi si incrina, mostrando una fragilità emotiva in cui l’attrice si rivela più che convincente, estremamente commovente. La Dietrich è significativamente coinvolta anche nella composizione di un altro ruolo essenziale per la trama, cercando di diventare una cockney credibile, lavorando sul suo naso finto e sull’accento: il risultato è sorprendente – tanto che alcuni, ancora oggi, stentano a credere che sia proprio lei.
L’attrice vedeva questo ruolo come il compimento della sua carriera e si aspettava un concerto di elogi che alla fine non ci furono: come le spiegò Wilder, al pubblico non piace essere preso in giro… E così non ci fu la tanto attesa nomination all’Oscar. Wilder provò a consolarla dichiarando che «concedere una candidatura a chi adatta un’opera teatrale è come dare ai traslocatori che hanno prelevato la Pietà di Michelangelo dal Vaticano per portarla alla Fiera di New York, un primo premio per la scultura».
Nonostante qualche gag visiva e dialoghi tipicamente wilderiani, si può convenire che questo film non è il più personale di tutti i lavori di Wilder. E che, come ha scritto provocatoriamente il biografo del regista Helmuth Karasek, Testimone d’accusa «è uno dei migliori film di Alfred Hitchcock».
Assistendo al film, è innegabile che Wilder non ne abiura l’impianto teatrale: la prima mezz’ora si svolge quasi interamente nell’ufficio di Sir Wilfrid, l’ultima ora quasi esclusivamente nell’aula del tribunale. Straordinario il lavoro dello scenografo Alexandre Trauner, dal momento che erano vietate le riprese all’interno dell’Old Bailey (anche un semplice scatto di foto), che “clonò” questo luogo leggendario negli studi Goldwyn. In questa ambientazione dove, a poco a poco, i nodi dell’intrigo si intrecciano e si dipanano, e la tensione del verdetto che si avvicina si unisce al logorio nervoso di un sudato Sir Wilfrid, Wilder non esita a coinvolgere il pubblico, le cui reazioni sono spesso guidate, come un’autentica direttrice di coro, da Miss Plimsoll. Rendendo così il suo dramma legale vivace, grazie all’innegabile qualità della sua riscrittura che valorizza l’ingegnosa trama di Agatha Christie. Testimone d’accusa rimane un intrattenimento molto efficace, con una suspense sapientemente distillata, uno dei migliori “film giudiziari” della storia del cinema. La stessa Agatha Christie ammise che Witness for the Prosecution era di gran lunga il miglior adattamento cinematografico di una delle sue opere. Quanto a Billy Wilder, in seguito menzionò raramente un film che considerava piuttosto impersonale; dopo diversi anni di lavoro ininterrotto, annunciò, all’avvicinarsi della fine delle riprese, che si sarebbe preso qualche mese di pausa, per “motivi di salute”, probabilmente anche per stanchezza. Questi pochi mesi gli furono utili perché, nel 1958, sviluppò l’adattamento da uno sconosciuto film tedesco, Fanfaren der Liebe (1951), che avrebbe dato vita A qualcuno piace caldo… Ma questa è un’altra storia.
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