Max Monetti (Richard Conte) è uscito dal carcere dove ha appena scontato sette anni di carcere al posto dell’adorato padre Gino (Edward G. Robinson), morto durante la sua detenzione. Si reca subito a far visita ai fratelli Joe, Tony e Pietro, direttori della banca Monetti, con cui discute animatamente. Dopodiché incontra la giovane Irene Bennett (Susan Hayward), che una volta amava e che ha aspettato che terminasse la sua detenzione: la donna gli propone di andare a San Francisco per ricominciare insieme una nuova vita ma Max ha in mente solamente di vendicarsi dei suoi tre fratelli che hanno abbandonato il genitore per prendere il controllo della banca da lui fondata. Giunto nella casa di famiglia, davanti al ritratto di suo padre, ricorda i giorni che hanno dato origine all’odio che lo anima…

Gino, piccolo emigrante, aveva fatto fortuna fondando una banca nel quartiere italiano di New York, senza mai tenere conto delle leggi vigenti. Uomo dispotico e abituato a trattare la sua famiglia con il pugno di ferro tipico del self-made man, perde il sostegno dei suoi figli quando deve chiudere i battenti per difendersi dall’accusa di irregolarità. Solamente Max, avvocato e da sempre l’unico figlio ad avere un rapporto d’affetto (ricambiato) con l’uomo, lo difende cercando perfino di  corrompere una donna della giuria per risparmiare a Gino l’umiliazione del carcere: quando però viene sorpreso dalla polizia avvertita da una soffiata e condannato, finisce in prigione.

Amaro destino (in questo modo inspiegabile è stato tradotto in italiano il molto più efficace titolo originale House of strangers) è stato realizzato da Joseph Mankiewicz nel 1949. Il suo insuccesso negli Stati Uniti non avrebbe fatto in nessun modo prevedere il successivo biennio d’oro del regista, che sia nel 1950 che nel 1951 avrebbe sbaragliato la concorrenza con un doppio premio Oscar come miglior regista e miglior sceneggiatura per Lettera a tre mogli Eva contro Eva. All’origine del film c’è il romanzo I‘ll Never Go There Anymore di Jerome Weidman in gran parte rielaborato e arricchito da Mankiewicz e Philip Yordan, l’unico sceneggiatore accreditato nei titoli. Sebbene non possa essere certo considerato il capolavoro del “cineasta preferito dagli snob” (copyright by François Truffaut) il risultato è un film che fonde con successo l’atmosfera del film noir e la tragedia familiare con un’intelligenza abbagliante.

Sono molte le sequenze pronte a riempire il cuore dei cinefili, come ad esempio quella del pasto con tutta la famiglia presente al servizio del dispotico e capriccioso, i molteplici confronti tra Max e i suoi tre fratelli che formano un fronte compatto unito contro di lui sono permeati di una fredda violenza che sfocia nella drammatica scena finale, gli scambi amorose tutt’altro che idilliaci tra Max e Irene sono davvero appassionati e così via…con menzione d’obbligo per la trovata ideata per introdurre il flashback portante della narrazione, una ripresa che sale lentamente le scale della casa di famiglia al ritmo di un’opera lirica così bella e accattivante che sembra di essere nel Il Padrino in bianco e nero!

Ottimo film “di famiglia”, Amaro destino si fonda su due protagonisti maschili molto forti. Il vecchio Edward G. Robinson (premiato a Cannes per la sua interpretazione) ruba la scena nella parte un po’ caricaturale di un vecchio italiano amante del bel canto, mangia spaghetti e tutto dedito a condurre affari e famiglia con fermezza e rigidità, mentre Richard Conte è come sempre impeccabile sia nel mostrarsi controllato che nelle situazioni in cui deve misurare le sue emozioni. Nel film trovano spazio anche diversi ruoli femminili significativi, in particolare il personaggio della Hayward, pieno di combattività ed empatia, o quello di Esther Minciotti (mamma Monetti) che parla poco ma bene conferendo grande dignità al ruolo. 

Da maestro che era, Mankiewicz si muove con sconcertante facilità da un personaggio all’altro, curando sempre alla perfezione la direzione degli attori e ogni scena risulta regolata al millimetro. L’impronta dei grandi, dei grandissimi, è evidente, e questo film che mi sembra un’opera molto sottovalutata senza dubbio ne porta la traccia.

Joseph L. Mankiewicz

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