John Rambo (Sylvester Stallone) è un eroe della guerra del Vietnam che vaga di città in città alla ricerca dei suoi ex compagni d’armi. Mentre si appresta ad attraversare un luogo abitato per mangiare lì, lo sceriffo Will Teasle (Brian Dennehy) lo arresta per vagabondaggio, dopo aver cercato di convincerlo a non entrare in paese. Imprigionato e maltrattato da agenti di polizia violenti, Rambo “esplode” e fugge nel bosco dopo aver ferito numerosi tutoti dell’ordine.
Braccato come un animale, l’ex soldato è costretto a uccidere un agente di polizia per legittima difesa. Da quel momento in poi, la polizia locale e la guardia nazionale impiegano ingenti risorse per stanarlo. Il colonnello Trautman (Richard Crenna), il suo mentore, interviene e cerca di dissuadere i due campi contrapposti dall’uccidersi a vicenda mentre Rambo, messo alle strette e ferito, entra in guerra totale contro le autorità…
Il tema dell’impossibile ritorno dall’inferno del Vietnam, degli anni trascorsi al fronte come mero strumento di una guerra la cui posta in gioco andava oltre coloro che avevano abbandonato la propria famiglia, la propria giovinezza e la propria innocenza per combattere in nome dei valori e degli interessi del loro Paese, hanno generato due dei migliori film americani degli anni ’70 – Tornando a Casa (Coming Home, 1978), di Hal Ashby, e Il cacciatore (The Deer Hunter, 1978), di Michael Cimino – ma anche altre due pellicole precedenti che vanno assolutamente riscoperte – I visitatori (The Visitors, 1972), di Elia Kazan, e La morte dietro la porta (Deathdream/Dead of Night, 1974), horror singolare di Bob Clark. Attraverso questi film si incominciava a prendere coscienza delle conseguenze di questa guerra senza fine nella quale gli Stati Uniti non fecero altro che impantanarsi. Tuttavia, queste opere avevano in comune il fatto di interrogarsi sulle conseguenze psicologiche sugli “attori” di questa guerra, sul modo in cui questa aveva influenzato i soggetti coinvolti, piuttosto che sulla reale percezione di questo conflitto nella società americana e sul modo in cui questi soldati furono disprezzati dall’amministrazione e da parte della popolazione. Rambo (First Blood, 1982), di Ted Kotcheff, non è propriamente un film politico, e nemmeno militante, ma cerca di dibattere sulle cause della guerra del Vietnam e di deplorarne le dirette conseguenze sui soldati. Ciò che mostra è una denuncia probabilmente ancora più inquietante perché non si riferisce solo alle decisioni prese da questo o quel governo ma ai comportamenti collettivi e individuali, alla doppia condanna di questi soldati respinti al loro ritorno da un’America divisa tra chi giudicava questa guerra illegittima e chi non digeriva la sconfitta. In entrambi i casi, e contrariamente a quanto accaduto in particolare nelle due guerre mondiali, i reduci americani non furono accolti come eroi o perlomeno non trattati come tali: molti di loro furono abbandonati, lasciati senza lavoro a causa dei postumi fisici (legati ai combattimenti o alle sostanze chimiche utilizzate dall’esercito) e soprattutto psicologici, che resero per la stragrande maggioranza di loro quasi impossibile il ritorno alla vita normale. First Blood ha come protagonista uno di questi uomini dal destino spezzato, John Rambo , riconosciuto dai suoi colleghi come un soldato eccezionale, che non ritrova il suo posto nella vita civile e, di contro, è trattato come un vagabondo, una minaccia per la pacifica città di Hope.
Adattamento dell’omonimo romanzo del 1972 scritto da David Morell (la sua prima opera e che disse di essersi ispirato alle storie dei suoi studenti quando era insegnante di inglese), Rambo impiegò dieci anni prima di arrivare sullo schermo, dopo un lungo processo che vide moltiplicarsi le versioni della sceneggiatura, i registi indicati, e i candidati per il ruolo del protagonista. Sylvester Stallone, l’outsider a lungo rifiutato e deriso, era nel frattempo diventato un’incarnazione del sogno americano grazie alle prime due parti della saga del perdente più magnifico e popolare della storia del cinema americano: Rocky Balboa. Vederlo incarnare Rambo, la figura del soldato abbandonato, di qualcuno espulso dal sogno americano, non lasciava indifferenti e conferiva ancora più profondità a questo personaggio e significato al soggetto del film. Allo stesso tempo assecondava la sua seconda natura di prodotto d’azione il cui eroe muscoloso è una vera macchina da guerra che nulla sembra essere in grado di fermare. Stallone, come Rambo, aveva sofferto di pregiudizi riguardo al suo aspetto, alla sensazione di non riuscire a trovare il suo posto nella società e di essere rifiutato prima ancora di avere la possibilità di essere accettato. In questo ruolo, come in quello di Rocky, ha trovato un alter ego e si è investito della sua stessa energia, al punto da scriverne la sceneggiatura e partecipare attivamente alla regia e al montaggio. Soprattutto dopo che una proiezione in anteprima sembrava aver decretato il disastro (il film venne rimontato).
Ancor più di Rocky, First Blood e il suo eroe John Rambo soffrono in parte dell’immagine fornita da una saga che, nei seguiti, ha optato per una vena più commerciale, per un rilancio più efficace a partire dagli anni ‘80. Questo First Blood ha già abbastanza “muscoli e fegato” per offrire uno spettacolo gradito agli appassionati del cinema d’azione: Ma per quanto Stallone sia in modalità guerra totale, ha anche un cuore, una accuratezza e riesce a esprimere un messaggio che rendono il film di grande qualità, amaro e straziante quanto violento e spettacolare.
Il contesto è mirabilmente ambientato fin dai primi minuti, nonostante quelle che si potrebbero definire inverosimiglianze ed eccessi, perché First Blood offre molto più di una scarica di adrenalina, dando vita alla tragedia di un uomo vittima della sindrome post-traumatica, spinta al limite, e non lo spettacolo insensato di un soldato impazzito. Ciò che accade nella piccola cittadina di Hope, tra Portland e Seattle, è emblematico di ciò che deve aver vissuto John Rambo dal suo ritorno dal Vietnam, come tutti i suoi commilitoni che rientravano a casa tra indifferenza e ostilità. La sceneggiatura fornisce la giusta quantità di informazioni fin dai primi minuti affinché si comprenda perfettamente da dove proviene Rambo, cosa ha sofferto, il suo stato d’animo e la sua ostinazione, a priori assurda, nel voler tornare in una città in cui gli era stato chiaramente intimato che non era il benvenuto; etichettandolo come vagabondo e dicendogli anche che la sua semplice presenza e il fatto di indossare la giacca militare con la bandiera americana erano motivo di disturbo. Questo “incidente” che degenererà in vera guerra evidenzia e simboleggia ciò contro cui ha dovuto lottare dal suo ritorno dal Vietnam.
L’ambientazione bucolica del passaggio di Rambo nei magnifici paesaggi collinari della Columbia Britannica, per far visita all’ex compagno del Vietnam, contrasta in modo sorprendente con il resto della storia che assumerà le sembianze di un incubo kafkiano fino a spingersi al limite estremo, per cristallizzare tutta la rabbia e il risentimento alimentati da anni trascorsi cercando invano di ricostruire se stessi (il lavoro del direttore della fotografia Andrew Lazlo è fantastico). La notizia della morte del suo compagno per cancro a causa dell’agente chimico utilizzato in Vietnam sarà il primo dei passi che porterà verso l’inferno, per colpa di una guerra assurda e distruttiva contro il suo stesso Paese, rappresentato dallo zelante sceriffo (ottimamente interpretato da Brian Dennehy) e dai suoi uomini.
In Wake In Fright (1972), Ted Kotcheff aveva già diretto brillantemente una storia oppressa da sorda tensione e violenza al centro della quale c’era un uomo che arrivava in una città sconosciuta, portando con sé il suo risentimento e il suo disagio. Con First Blood, eccelle ancora una volta nel farci seguire il destino di un individuo sull’orlo del collasso che un brutto incontro, nella città sbagliata, trasformerà in violenza pura. Kotcheff, con grande genialità, riesce a cogliere il triplice movimento della vicenda (ingiustizia, fuga, vendetta) solcando i generi del drammatico, del film d’azione e perfino del western in un finale dantesco tra lo sceriffo Teaslee e Rambo, in un ambiente desertico. Al di là della sua regia, è doveroso rendergli omaggio per aver imposto Sylvester Stallone, nonostante l’iniziale riluttanza dei dirigenti della giovanissima e in seguito leggendaria compagnia Carolco Pictures. Oltre a sorreggere tutto il film, e ad aver rielaborato il materiale del romanzo in modo significativo, va sottolineato che Stallone rese un grosso servizio alla Carolco imponendo un finale diverso, dato che il film era stato inizialmente concepito come una missione suicida, il che era coerente con il tono generale e la sensazione che Rambo avesse trovato lì la sua missione definitiva. Invece di questo finale logico ma crudele, Stallone scrisse e interpretò un coraggioso e straziante monologo, quello di un uomo perduto, spezzato dal dolore e dalla rabbia di un presente impossibile da scrivere, di fronte a colui che “lo aveva creato”, colui che gli aveva permesso di diventare realtà, il colonnello Trautman (interpretato da Richard Crenna, che ereditò il ruolo da Kirk Douglas, ingestibile perché avrebbe voluto riscriverlo completamente): «Non voglio far del male a nessuno, ho combattuto in Vietnam e ho ricevuto dal Congresso degli Stati Uniti la medaglia dell’eroe, ma adesso voi mi trattate come un vagabondo, vi faccio ribrezzo e un po’ paura; uno sceriffo sanguinario decide di cacciarmi dalla sua contea, mi pesta di botte e io gli dichiaro guerra, a lui e alla sua città così per bene, gli faccio vedere che cosa ho imparato nella giungla».
Sia che agisca in modalità Predator, cinque anni prima del film di John McTiernan, diventando tutt’uno con il suo ambiente, neutralizzando ciascuno dei suoi nemici uno per uno; o in modalità commando, guidando l’assalto contro un’intera città per stanare lo sceriffo Teaslee, il legame tra spettatore e John Rambo non si spezza mai. E nei suoi occhi rimane questo dolore incancellabile.
First Blood è uno di quei film su cui c’è un malinteso, anche a causa di una saga successiva senza cervello, che gli anni hanno in parte contribuito a dissipare. È indubbiamente uno dei film di punta degli anni ’80 e influenzerà fortemente il cinema d’azione del decennio. Ma è anche e soprattutto, a patto di non fermarci alle apparenze, un’opera davvero eccezionale portata avanti da un attore/autore, spesso deriso e anche parodiato, ma il cui immenso talento sta finalmente cominciando a essere riconosciuto.
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