Imprevedibile, capriccioso, un pochettino grottesco, misogino e soprattutto geniale: sono passati esattamente 90 anni dall’esordio letterario di Nero Wolfe, uno dei grandi protagonisti della letteratura poliziesca mondiale. Personaggio tra i più amati, il colossale investigatore privato residente a New York nella celebre casa di arenaria sulla Trentacinquesima Strada fa la sua comparsa nel 1934 in Fer de Lance (La traccia del serpente) conquistando subito i favori del pubblico. Il successo del primo romanzo fu tale da indurre il creatore Rex Stout, uomo dal multiforme ingegno, ad abbandonare la strada della letteratura “alta” per dedicarsi a quella di genere. Non che il suo primo libro, il romanzo sperimentale How like a God (Due rampe per l’abisso), non fosse buono, ma venne accolto con perplessità dalla critica e non raggiunse alte tirature: quanto bastava per convincere il talentuoso Stout “di avere la stoffa del narratore, ma non quella del grande romanziere” e a dedicarsi interamente alla letteratura poliziesca.
Il corpus delle opere che descrivono le imprese del pachidermico e burbero Wolfe conta oltre settanta casi e consente quasi di tracciare una biografia immaginaria del protagonista, impossibile da ricostruire con assoluta precisione ma sicuramente affascinante. Wolfe nasce nel 1892 o 1893 a Trenton, nel New Jersey, nonostante l’autore troverà modo di precisare che “nella bozza originale di Over My Dead Body (Nero Wolfe e sua figlia) Nero era montenegrino di nascita, il che quadrava con tutti i precedenti accenni al suo background; ma violente proteste da parte della American Magazine, sostenuti dalla Farrar & Rinehart, spostarono il suo luogo di nascita di cinquemila miglia. […] Mi ero stancato di tutto il clamore, e poi sembrava improbabile che a qualcuno sarebbe importato un accidente, o, quanto a questo, che qualcuno lo avrebbe persino notato”.1 A fine Ottocento, la madre si trasferisce in Europa portando con sé il figlio. La partecipazione del nostro alla Grande Guerra è tumultuosa: nel 1913 ottiene un impiego al servizio dell’Impero Austro-Ungarico, finisce imprigionato in Bulgaria e, all’uscita dal carcere, giura fedeltà all’esercito montenegrino. Nel 1917-18 si unisce agli Americani e, al finire del conflitto, resta nel vecchio continente viaggiando nei Balcani. Poco si sa degli anni successivi, tra il 1922 e il 1928, utilizzati probabilmente da Wolfe per aumentare la propria cultura e conoscenza del mondo. Nel 1929 torna per l’ultima volta in Europa ma viene imprigionato a Zagabria: con solamente dieci ore a disposizione per lasciare il paese, torna Oltreoceano e, l’anno dopo, acquista la casa di New York in cui si installerà per vivere come un re e da cui avvierà la sua attività di investigatore privato.
A fornire tutte queste preziose informazioni al lettore è Archie Goodwin, il fidato scudiero di Nero Wolfe. Archie è molto di più di una versione aggiornata in salsa americana del dottor Watson: rappresenta le braccia, le gambe, gli occhi, le orecchie e perfino il naso del suo principale che, notoriamente, si fa riferire gli indizi raccolti su cui meditare – tra un pranzo luculliano e un innesto alle migliaia di orchidee che coltiva nella serra – per poi fornire la soluzione. Io narrante, biografo, aiutante e alter-ego di Wolfe, Archie è il personaggio di supporto più importante della serie che può contare su altre figure quali il cuoco svizzero Fritz Brenner, il giardiniere Theodore Horstmann, gli investigatori privati Saul Panzer, Fred Durkin e Orrie Cather, l’ispettore Cramer e la bella e ricca Lily Rowan: di tutti questi (e di altri) personaggi ricorrenti, Stout elabora tassello dopo tassello la psicologia e il carattere in modo da intrattenere i lettori in modo credibile e, quando serve, costruire situazioni di puro divertimento.
Con una trovata semplice e geniale come l’uovo di Colombo, con la coppia Wolfe-Goodwin – il primo immobile e votato alla psicologia, il secondo dinamico e sempre pronto all’azione – Stout compone la frattura tra la detective story tradizionale fiorita soprattutto in Europa e quella della nascente hard-boiled school americana. Attenzione alle date: sono passati pochissimi anni da quando il padre della “scuola dei duri” Dashiell Hammett ha pubblicato la prima avventura di Continental Op (1923) e appena un lustro dalla nascita di Sam Spade (1929), mentre il suo epigono più famoso Raymond Chandler uscirà con Il grande sonno solo nel 1939. La trovata di Stout è ottima e deve aver in qualche modo attraversato per il lungo le Americhe ispirando (pensiero mio!) Borges e Bioy Casares, non propriamente due ultimi arrivati, che nel 1942 pubblicano Sei problemi per don Isidro Parodi proponendo ai lettori un investigatore obeso (!) che risolve i misteri che gli vengono presentati senza muoversi dal carcere.
Eppure il cinema non sembra mostrare grande interesse. O meglio: Hollywood si fa trovare subito pronta nel 1936 con la pellicola Meet Nero Wolfe che porta velocemente sul grande schermo il primo caso e l’anno successivo uno dei casi più famosi, The League of Frightened Man (La lega degli uomini spaventati): da sempre una consuetudine, quella degli studios, di cavalcare i successi del momento, che in quegli anni proporrà al pubblico trasposizioni da tutti i grandi autori dell’epoca senza interrompere le già ricche filmografie dedicate a Sherlock Holmes.
Ma al contrario del contemporaneo Philo Vance che trova subito in William Powell un interprete credibile che ne favorisce la riconoscibilità, Nero Wolfe non si impone al cinema. I motivi di questo amore mancato sono inspiegabili. Le avventure del collezionista di orchidee più famoso al mondo possono soddisfare ampiamente sia i gusti di chi ama le storie ambientate nell’alta società che quelli degli appassionati di gangster-movie; amanti traditi, figli delusi, soci d’affari truffati ecc.: la passione scorre violenta nelle vicende che ruotano intorno alla casa d’arenaria; raffinati antagonisti o brutali omicidi si alternano al cospetto del Genio, che li affronta con la solita ferrea logica e senza che la sua classe e le sue abitudini vengano scalfite in nessun modo.
Già perché i vizi, le manie e perfino le idiosincrasie di Wolfe contribuiscono a creare con il lettore un rapporto di affetto quasi morboso di cui difficilmente, proseguendo gradatamente nella lettura, si riesce poi a disfarsi. Lo sanno bene gli spettatori italiani che hanno avuto modo di apprezzare l’interpretazione del grandissimo Tino Buazzelli nelle tre stagioni andate in onda sulla RAI tra il 1969 e il 1971. Gli episodi della serie misero d’accordo critica e pubblico (in media oscillante tra i 18 e i 20 milioni a puntata) a tal punto da essere promossi dall’allora Secondo Programma (ep. 1-4) al Programma Nazionale (ep. 5-10). La formazione classica dell’attore di Frascati lo resero vero e proprio mattatore dei dieci episodi ed epicentro di un ecosistema di grandi professionisti dello spettacolo quali Paolo Ferrari (Archie Goodwin) e Pupo de Luca (Fritz Brenner): in attesa che il cinema paghi il suo debito nei confronti del leggendario personaggio di Stout, il volto di Buazzelli resta ancora per quanto mi riguarda, non ce ne vogliano i pur bravi William Conrad e Francesco Pannofino, la personificazione meglio riuscita di Nero Wolfe.
1 John McAleer, Rex Stout: A Biography, Boston, Little, Brown and Company, 1977, pag. 403;
Lascia un commento