Tom Welles (Nicholas Cage), detective privato alla ricerca di un caso che gli possa portare finalmente notorietà, conduce una vita normale con sua moglie Amy e la loro piccola figlia. Quando una ricca vedova gli chiede di indagare sulla pellicola 8mm che ha scoperto nella cassaforte del suo defunto marito, Tom si ritrova in un mondo di cui ignorava perfino l’esistenza. L’abuso sessuale e l’omicidio della giovane sconosciuta filmati nel video sono solo una messa in scena perversa o una realtà terrificante? L’indagine lo conduce fino a Hollywood, dove viene affiancato da uno strampalato venditore di sexy shop (Joaquin Phoenix, ancora poco conosciuto ma già di grande talento) il cui interesse per la cultura in senso lato – lo vediamo leggere Truman Capote – e la capacità di muoversi come un funambolo in un mondo di devianze conducono il buon Welles fino alle soglie dell’abisso. 

8mm – Delitto a luci rosse è un thriller che indaga gli ambienti più malsani della depravazione umana e racconta con logica implacabile (più che impeccabile!) una discesa agli inferi, secondo il senso più etimologico del termine. Si va dall’immaginato al visto, dalle vendite accessibili a tutti alle pratiche dietro le quinte fino alle sordidissime vendite sotterranee (film di stupri di gruppo, ecc.) per arrivare in un climax incredibile agli snuff movies…

Schumacher si mostra tanto affascinato quanto inquietato dal sottosuolo della pornografia illegale: la sua messa in scena, piuttosto coinvolgente nonostante l’adozione di un apparente stile illustrativo, sfocia in atmosfere tanto più inquietanti nella misura in cui i riferimenti dell’investigatore Welles sono spesso sconvolti dalla visione delle devianze filmate, integrate nel montaggio del film.

Il film merita una riabilitazione in piena regola: all’epoca della sua realizzazione (1999) fu oggetto di gravi accuse, pretestuose e bigotte: “Quando racconto una storia, questa non è legata alla mia vita. È una storia! Ma sì, capisco che potremmo confondere il punto di vista del regista e quello del personaggio. Come ha detto Mike Nichols, le persone spesso confondono il contenuto con l’intento. Ma solo perché metti qualcosa nel tuo film non significa che lo approvi. A questo punto, non credi che Romeo e Giulietta diventi una promozione del suicidio adolescenziale? Un tempo accettavamo molto di più l’ambiguità del cinema”, liquidò la questione in un’intervista rilasciata qualche anno più tardi il regista Joel Schumacher1. Ma le polemiche finirono per condizionare l’accoglienza di 8mm – Delitto a luci rosse, che risultò un insuccesso.

Eppure il film non manca di elementi di valore. Innanzitutto il lavoro sulla sceneggiatura di Andrew Kevin Walker – ancora sugli allori per il precedente Seven – assicurava gli spettatori che il viaggio del detective Tom Welles avrebbe avuto meno a che fare con la ripulitura del degrado che con il vagare nell’inferno della contaminazione. Come i suoi predecessori nel film di David Fincher, anche in questo caso il protagonista si addentra sempre di più in un universo appiccicoso, oscuro e agitato dagli impulsi più estremi, dal sadismo sessuale al voyeurismo morboso. Nella visione di Schumacher Hollywood diventa una vera e propria Babilonia, che non si fa scrupoli a bruciare letteralmente le vite di chi si affaccia con poca avvedutezza in cerca di fortuna (in questo senso, la giovane vittima di 8mm diventa una moderna Dalia Nera).

Anche la scelta di “normalizzare” il male, così anti-hollywoodiana, risulta accrescere l’impatto del film: gli antagonisti sono, a eccezione dell’eccentrico produttore di porno, poco più che colletti bianchi della depravazione. Sordidi e squallidi, certo, perfino criminali, ma capaci di nascondere la loro mostruosità dietro una maschera apparentemente impiegatizia. In questo senso l’assenza di un vero e proprio “cattivo” in grado di restare impresso nell’immaginario degli spettatori (un grosso calibro di psicopatico, per intenderci, come le superstar degli anni Novanta: il killer di Seven e soprattutto il dottor Hannibal Lecter) sacrifica qualcosa allo spettacolo ma rende ancora più inquietante perché vicina al quotidiano di chi osserva l’indagine del detective Welles.

Per fortuna anche il protagonista è lontanissimo dall’essere un superuomo: fragile e in alcuni frangenti inadeguato (pur senza raggiungerne l’emotività, in questo ricorda in più di una situazione il Rourke di Angel heart), il bravissimo Nicholas Cage diventa quasi l’archetipo del cavaliere investito di una missione morale. Quasi. È evidente infatti la sua riluttanza ad abbracciare il ruolo di vendicatore e non a caso – nella scena forse più controversa del film – arriva perfino a chiedere alla madre della giovane l’autorizzazione a uccidere il suo assassino. Infuriato, ferito, ormai sul punto di diventare ciò che non avrebbe mai pensato – né voluto – diventare, Welles avanza alla cieca nell’oscurità, finché non si ritrova faccia a faccia con il nemico da eliminare. 
La violenza nel suo caso non ha nulla di catartico, come ci rivela l’ambiguità marcata dell’epilogo: anche mentre cerca conforto e riscatto presso il suo nucleo familiare (“Salvami”, chiede in lacrime alla moglie al ritorno a casa dalla vendetta) o riceve una lettera di ringraziamento dalla madre della ragazza uccisa (che insiste sull’impossibilità di alleviare qualsiasi forma di dolore attraverso la vendetta), è difficile rilevare qualche traccia di serenità in Welles durante la scena finale.


1 Cfr. Premiere n° 318, agosto 2003

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