Nel giugno del 1964 tre giovani attivisti per i diritti civili degli afroamericani scompaiono nel nulla dopo essersi recati nella contea di Jessup, Mississippi, per istruire gli appartenenti alla comunità nera all’iscrizione nei registri elettorali; l’FBI invia sul posto i due agenti Rupert Anderson (Gene Hackman) e Alan Ward (Willem Dafoe), per indagare sulla loro scomparsa. Molto diversi tra loro, il più giovane (a cui fanno capo le indagini) idealista e rigorosamente rispettoso delle procedure, il più anziano brutale e scafato, i due uomini di Hoover si muovono in un ambiente pronto a esplodere. Come se non bastasse, le ricerche vengono ostacolate dall’ostilità delle istituzioni e delle autorità, dall’omertà degli abitanti di fronte alle molteplici brutalità perpetrate contro i neri e perfino dal Ku Klux Klan.
La svolta si ottiene quando la moglie del vicesceriffo Pell (Frances McDormand), una donna dal carattere semplice che non condivide la spirale di odio che regna nel Mississippi e che il suo stesso marito alimenta, viene lentamente convinta da Anderson a rivelare quanto sa e a smentire così l’alibi che Pell si era costruito…

Mississippi Burning – Le radici dell’odio (Mississippi Burning, 1988) è tratto da una storia vera e il titolo stesso non è altro che il nome dell’operazione avviata dall’FBI per individuare i responsabili dell’omicidio di tre attivisti per i diritti dei neri e che porterà al processo di 21 sospetti, tra cui lo sceriffo e il suo vice: se il tribunale condannerà solamente sette di loro a pene non particolarmente severe, l’evento diventerà un punto di svolta nella lotta per i diritti civili favorendo la promulgazione da parte del presidente Lyndon B. Johnson del Civil Rights Act, che vieta le disparità di registrazione elettorale e la segregazione razziale nei luoghi pubblici, sul lavoro e nelle scuole.

Che il film avesse tutte le carte in regole per essere un ottimo prodotto è evidente. Basta leggere i nomi in cartellone: Alan Parker alla regia, Willem Dafoe e Gene Hackman protagonisti principali, Frances McDormand come volto femminile e nel supporting cast nomi come Brad Dourif e Ronald Lee Ermey. Grandi professionisti in un vero e proprio stato di grazia. Il regista inglese, probabilmente particolarmente ispirato da atmosfere così diverse da quelle del suo paese d’origine, torna nel Sud degli Stati Uniti dopo Angel Heart (1987) per dirigere una storia che più americana non si può. L’estraneità del regista a questi ambienti, se nel film con Rourke avevano portato all’esasperazione degli scenari umidi e torbidi in cui l’indagine risultava ancora più perversa, in questo caso mette al riparo Parker da cadute retoriche, la principale trappola di un film come questo. Da regista sicuro dei propri mezzi, con mano ferma Parker realizza un poliziesco anomalo nel suo intrecciarsi con temi di lotta civile in cui la narrazione si sviluppa rigorosamente attraverso immagini perfette da un punto di vista formale e di grande impatto (non a caso, Mississippi Burning vinse il premio Oscar solo per la fotografia nonostante ben sette nomination).

Il resto lo fanno gli attori. Dopo qualche passaggio a vuoto nella prima parte degli anni Ottanta, Gene Hackman aveva già recuperato il suo smalto e qui fornisce una delle interpretazioni migliori della sua straordinaria carriera (premiata al festival di Berlino con l’Orso d’argento). Il suo agente Anderson è disincantato, cinico, all’apparenza brutale e allo stesso tempo capace di tenerezza: è il suo mestiere a indurre i neri della comunità a parlare con l’FBI mentre conquista con tenacia e comprensione la fiducia della moglie dello sceriffo. Anderson sa che un progresso sociale è non solo auspicabile ma anche possibile perché lui stesso proviene da un ambiente simile a quello della contea di Jessup. È un personaggio sfumato e complesso, educato dal padre all’odio (“se non sei meglio di un negro, figliolo, allora di chi sarai meglio?”), che decide di lasciarsi alle spalle quell’ambiente per lavorare nell’FBI.

Anche Willem Defoe era in grande auge in quegli anni, dopo i successi di Strade di fuoco (1984) di Walter Hill, Vivere e morire a Los Angeles (1985) di William Friedkin e, soprattutto, Platoon (1986) di Oliver Stone. Proprio nell’umanità del sergente Elias di Platoon andrebbe ricercato un antecedente dell’idealismo dell’agente Ward: niente di monolitico, perché anche in questo caso si tratta di un personaggio sfaccettato che, se nella prima parte si dimostra apertamente ostile ai metodi di Anderson e ottimista ai limiti dell’ingenuità, diventa via via sempre più pragmatico adeguandosi perfino ad adottare i mezzi non ortodossi del collega per arrivare alla verità.

Frances McDormand sfrutta alla perfezione la prima occasione importante per mettersi in mostra lontana dal marito Joel Coen. Questa vera e propria regina dell’understatement, dà vigore e credibilità a una figura determinante sia per la soluzione della vicenda ma ancor di più per il suo valore simbolico: la sua sig.ra Pell incarna la parte buona della società bianca, che si rende conto della necessità di un cambiamento, una donna che si rifiuta di considerare immutabile l’ambiente che la circonda, pur non avendo il coraggio di lasciarselo alle spalle.

Certo, Mississippi Burning è la storia dei conflitti tra due comunità e dei soprusi che l’una esercita sull’altra. Ma il film porta questo conflitto politico a un livello più intimo: con le loro ambiguità, i suoi personaggi chiamano gli spettatori a interrogarsi sulla violenza, sul ruolo di vittima e carnefice che ciascuno di noi può trovarsi a indossare.

Autore

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Trending