Sport tra i più amati e praticati al mondo, il calcio non è cinematograficamente molto fortunato. Ci è voluta nientemeno che la mano del grande John Huston – e una parata internazionale di campioni – per rendere adeguatamente sul grande schermo il pathos e il dinamismo del rettangolo di gioco. Maggior fortuna hanno i biopic o le storie che ruotano intorno all’ambiente calcistico in cui il gesto sportivo viene relegato sullo sfondo (la filmografia diventa più rilevante e cospicua, dal Maradona di Kusturica al Mio amico Eric di Loach passando dal divertente Febbre a 90° e altri). Non si sottrae a questa regola generale il cinema di casa nostra, che tuttavia è riuscito a dare dignità anche alla figura del dirigente – la più anonima tra quelle che concorrono in maniera determinante allo spettacolo che coinvolge miliardi di appassionati.
Ultimo minuto è un film diretto da Pupi Avati nel 1987. Gli Ottanta hanno rappresentato forse il decennio più fitto di avvenimenti per il nostro calcio, che si apprestava definitivamente a varcare il perimetro del campo per diventare dilagante fenomeno di costume: tra il mondiale vinto di Spagna ’82 (il più narrato, epico e celebrato di tutti quelli conquistati dagli azzurri), la riapertura delle frontiere, lo scandalo delle scommesse e il dominio internazionale dei nostri club nel secondo lustro, in Italia le star del football soppiantavano definitivamente nell’immaginario popolare e per celebrità quelle degli altri sport (resisteva solo qualche fenomeno isolato d’oltreoceano in Michael Jordan, Mike Tyson e Ayrton Senna). Anche da noi, come già in Spagna e nei paesi latinoamericani, il football poneva le basi necessarie a diventare – compiutamente solo nei Novanta – strumento per costruire un consenso politico.
La storia raccontata dal regista bolognese si inserisce in questo contesto e ha come protagonista Walter Ferroni (Ugo Tognazzi), sedicente avvocato e dirigente di una piccola squadra di Serie A (c’è chi, per i colori sociali biancorossi, vi riconosce il Vicenza e nella giovane star l’astro allora nascente di Roberto Baggio), alle prese con il passaggio da una dimensione provinciale e dalla lotta per non retrocedere ad ambizioni di grandezza legittimate dalla nuova proprietà. Un cambiamento non indolore, nemmeno per lo stesso Ferroni: il nuovo presidente (Lino Capolicchio) dapprima lo silura, sacrificando sull’altare della logica aziendale il modus operandi appassionato ma obsoleto dello storico collaboratore, salvo poi ricredersi di fronte a risultati che tardano ad arrivare. Ferroni viene richiamato come salvatore della patria e i suoi metodi risulteranno vincenti, anche se sanciranno il definitivo allontanamento dalla figlia Marta (Elena Sofia Ricci), con cui intratteneva un rapporto già conflittuale.
Una storia semplice, quasi minima, raccontata con garbo e un pochino di retorica su una sceneggiatura preparata dal regista insieme al fratello Antonio e al giornalista Italo Cucci. Il film tuttavia non ebbe successo, nonostante un cast prezioso che poteva contare anche su un cameo di Diego Abatantuono (rilanciato alla grande da Avati nel Regalo di Natale dell’anno precedente) nella parte di un procuratore, scontando forse un formato “televisivo” e aspettative troppo alte. Il fallimento al botteghino venne vissuto in modo pessimo dal grande Tognazzi: nelle intenzioni di Pupi Avati, Ultimo minuto avrebbe dovuto essere un risarcimento per l’attore che in qualche modo contribuì a far decollare la sua carriera accettando di partecipare alla Mazurka della santa, del barone e del fico fiorone (1975). Al momento del primo ciak, i ruoli si erano invertiti e trovavano il regista in rampa di lancio e l’attore sul viale del tramonto, imboccato da qualche anno con conseguente crisi depressive. “Lui si era affezionato a questo film in modo morboso” ricorda Avati, ma Ultimo minuto andò male e non servì a rilanciare la popolarità di Tognazzi, nonostante la sua grande interpretazione.
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