Non esistono serial killer in Unione Sovietica. I funzionari del partito comunista che guida il Paese sono impegnati a proclamarlo forte e chiaro. Tali devianze sono il frutto della decadenza del capitalismo occidentale e sinonimo della sua corruzione. Un bel discorso ufficiale che suona male e, all’inizio degli anni ’80, si scontra con l’arrivo di un mucchio di cadaveri a cui dare un nome che invadono lo studio di un medico legale. Non volendo correre rischi con questa storia, nonostante le ostilità della nomenklatura il colonnello della polizia locale promuove il medico e lo nomina detective incaricato del caso. Il nostro eroe ha solo una manciata di miliziani e risorse molto limitate: Viktor Burakov, questo il nome del personaggio principale, non ha realmente chiesto di indagare su questo argomento limitandosi semplicemente a evidenziare come l’autore del delitto dovesse essere necessariamente uno solo…
Sul grande schermo la storia di Andrej Chikatilo, il cosiddetto mostro di Rostov accusato di 53 omicidi compiuti tra il 1978 e il 1990 e relativi atti di cannibalismo, necrofilia, mutilazioni, è stata trasposta numerose volte: inevitabile che Hollywood si interessasse al caso più clamoroso (e unico, per le ragioni descritte sopra) che ha coinvolto la superpotenza allora rivale degli Stati Uniti. Tra tutti i film realizzati che ripercorrono più o meno fedelmente questa sanguinosa vicenda, è però Cittadino X (Citizen X, 1995) prodotto per la TV a risultare il più efficace.
Innanzitutto il tono della narrazione è sobrio e meticoloso, senza nessuna concessione alla spettacolarizzazione. Un grigiore che sembra richiamare quello dell’ambiente che fa da sfondo all’indagine, ma che in realtà contribuisce a rendere ancor più credibile il film. Cittadino X introduce abbastanza presto l’assassino, perché qui non si tratta di aumentare la suspense riguardo all’identità del colpevole: la storia si concentra sulle noiose indagini e sulla lotta di Burakov contro i suoi superiori.
E soprattutto sul rapporto tra l’investigatore e il suo capo (Donald Sutherland), un colonnello ottimamente integrato nel sistema sovietico di cui comprende intelligentemente anche i limiti. Il rapporto tra i due uomini è il cuore della sceneggiatura: impareranno a capirsi e poi a rispettarsi solo un passo alla volta nei lunghi anni delle indagini (quasi dieci!), il che non sorprende dal momento che perseguono entrambi lo stesso obiettivo. Solo che Burakov porta sulle spalle il fatto che l’assassino potrebbe agire in qualsiasi momento. Una situazione che potrebbe portarlo alla follia e c’è da chiedersi se alla fine la sua rabbia nel procedere a tutti i costi non sia proprio ciò che lo salva.
Burakov non è il solito eroe. È soprattutto un uomo della strada e Stephen Rea lo interpreta senza forzare nulla. Da qui l’evocazione di un personaggio normale, forse un po’ triste e spento, ma soprattutto molto umano. Ciò aggiunge realismo alla storia che consente, di passaggio, di ripercorrere l’evoluzione sociale legata alla Perestrojka, almeno per quanto riguarda i mezzi messi a disposizione degli investigatori. Jeffrey DeMunn non è da meno nei panni di Chikatilo, sebbene costruisca un assassino che ispira forse un po’ troppa pietà, trovando piacere solo nel compiere omicidi per sfuggire a una vita vuota e piena di disillusione.
Un film da scoprire, con una trama classica ma rivitalizzata dal contesto storico e geografico, da una ricostruzione impeccabile e portato avanti da un cast davvero ammirevole. Vale anche la pena menzionare l’estrema finezza con cui vengono filmati gli omicidi stessi, che rimangono visivamente scioccanti senza scadere nel “gore”.
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