Descrivendo la violenza perpetrata da un sindacato criminale e corrotto nel duro ambiente dei portuali di Hoboken, nel New Jersey, si racconta il tormentato viaggio morale di Terry Malloy (Marlon Brando). Ex pugile di talento che ha avuto la sua ora di gloria, il giovane è ora un semplice scaricatore di porto, ma è anche il fratello di Charley (Rod Steiger), uno degli avvocati luogotenenti del boss del sindacato mafioso, “Johnny Friendly” (Lee J. Cobb), che usa regolarmente Terry come aiutante in sporchi trucchi. Un giorno, Terry partecipa suo malgrado all’omicidio di Joey Doyle, spinto dal tetto di un edificio dagli uomini di “Friendly” dopo aver pensato di denunciare i loro metodi davanti a una commissione d’inchiesta. Profondamente turbato nella coscienza, Terry si allontanerà gradualmente dai suoi ex “amici” – un viaggio disseminato di dubbi e pressioni di ogni tipo – grazie alla benefica influenza di Padre Barry (Karl Malden). Quest’ultimo ha infatti preso una decisione il cui coraggio prefigura ciò di cui Terry testimonierà più tardi: uscire dal suo ruolo di spettatore e cercare di unire i portuali in una rivolta contro l’onnipotente sindacato presieduto da “Friendly”. Soprattutto, il guscio di indifferenza di Terry si incrinerà al contatto con Edie (Eva Marie Saint), la sorella di Joey Doyle tornata al porto per cercare di far luce sull’assassinio – mascherato da incidente – di suo fratello. Lacerato da alleanze contrastanti, Terry finalmente riconnette con il suo senso morale e decide di tradire la sua famiglia per il bene della collettività e per la propria redenzione.

Oggi parlare di Fronte del porto (On the Waterfront, 1954) come di una vendetta di Elia Kazan è scontato. Convocato due anni prima davanti all’HCUA (House Committee on Un-American Activities), nel pieno del delirio maccartista, il cineasta cedette alle pressioni e denunciò come comunisti otto membri del suo ex collettivo teatrale, il Group Theatre. Il cineasta non era certo solo in questo caso, ma il riconoscimento pubblico del suo tradimento lo elevò rapidamente al rango di simbolo di ignominia. Questo episodio gli valse l’ostinato risentimento di un intero settore dell’industria cinematografica, che gli chiuse i battenti e lo considerò un appestato. Ancora oggi le polemiche attorno al regista restano vive, come testimoniano gli accesi dibattiti che accompagnano ogni iniziativa volta a rendere omaggio all’artista, compreso l’Oscar alla carriera consegnatogli nel 1999.

Facendo affidamento sugli amici rimasti, Kazan contrattaccò nel modo più efficace possibile: realizzando un capolavoro, le cui qualità artistiche non potevano che abbattere la diga di disprezzo e rifiuto eretta attorno a lui. Meglio ancora, rese il suo nuovo film una precisa metafora della sua situazione personale. Attraverso la storia di Terry Malloy, Fronte del porto giustifica l’informatore, il traditore. Terry “dà” nomi come ha fatto Kazan prima di lui. Un tradimento… per ragioni giuste. Il tema centrale del film è quindi, senza dubbio, la coscienza morale e la considerazione del bene comune che, da soli, consentono di giustificare il misfatto. Questa interpretazione non è un’analisi casuale e discutibile: Kazan lo ha affermato senza deviazioni. Nella sua autobiografia pubblicata nel 1988, l’illustre cineasta assume così il suo sentimento di vendetta nei confronti di coloro che lo avevano ostracizzato, arrivando addirittura a descrivere la sua esultanza quando il film fu un trionfo e vinse ben otto Oscar. Si noti che probabilmente non è una coincidenza che il sindacato svolga il ruolo sbagliato nel film, perché negli anni Cinquanta era uno dei rari ambienti in cui l’agitazione comunista godeva di (relativa) popolarità negli Stati Uniti. Arthur Cohn, il capo della Columbia Pictures che aveva rifiutato il film ben due volte, aveva insistito per sostituire, nella sceneggiatura inizialmente scritta da Arthur Miller, i disonesti dirigenti sindacali con… comunisti. Miller rifiutò categoricamente e abbandonò il progetto, che fu riscritto da Budd Schulberg. Vale anche la pena ricordare che l’infiltrazione della criminalità organizzata nei sindacati era all’epoca un male abbastanza diffuso. Il personaggio di “Johnny Friendly” è del resto in parte basato su Johnny Dio, un mafioso newyorkese che si distinse soprattutto per il racket organizzato all’interno di un sindacato. Tre anni dopo l’uscita del film, Jimmy Hoffa divenne leader dei Teamsters, il potente sindacato americano dei camionisti. Il resto è noto.

Con taglio neorealista, il film fu girato in gran parte a Hoboken, in luoghi effettivi e con autentici portuali come comparse. Kazan provò un grande piacere nel dirigere in questo ambiente che conosceva bene e che conferisce un notevole realismo a questo film che è anche una denuncia sociale. On the Waterfront descrive la miseria del mondo dei lavoratori portuali, sfruttato da un sindacato con metodi criminali che governa questo ambiente come se fosse il suo regno personale – decidendo anche la vita e la morte dei suoi abitanti. Una scena suggestiva mostra un’orda di portuali ridotti allo stato animale, costretti a lottare per ottenere un biglietto di accesso al cantiere, che permetterà loro di guadagnare abbastanza per vivere un altro giorno. Una quotidianità crudele e incerta che trova un’eco molto più tenera nelle scene della colombaia – Terry che dà da mangiare agli uccelli di Joey Doyle, sui tetti dei palazzi, dopo la morte del loro padrone. Due situazioni di dipendenza, due ecosistemi che una mano generosa deve nutrire per garantirne la sopravvivenza, ma da un lato il mecenate è intenerito dal cinismo del corrotto, dall’altro dalla tenerezza di un uomo a cui non nulla pesa ma ha mantenuto la sua umanità.

Kazan si guardò bene dall’idealizzare il mondo del lavoro opponendolo in modo manicheo ai suoi oppressori. Incapaci di superare la loro realtà individuale, i portuali accettano il loro destino e si sottomettono al giogo di un manipolo di furfanti. Quando Terry decide finalmente di rivoltarsi contro i suoi ex padroni, la reazione istintiva di chi lo circonda è il rifiuto, addirittura la denigrazione. Bloccati in rigidi principi, i portuali non perdonano il tradimento di Terry, senza rendersi conto di quanto questo gesto potrebbe spezzare le loro catene. La liberazione finale avverrà contemporaneamente alla redenzione di Terry. Durante la sequenza conclusiva, il protagonista affronta fisicamente “Friendly” e la sua banda. Duramente picchiato, a malapena in grado di reggersi in piedi, il suo sacrificio finalmente attira i suoi colleghi, che prendono coscienza della forza del loro collettivo e finalmente si rifiutano di eseguire gli ordini. Padre Barry respinge coloro che intendono dare il cambio a Terry. Quest’ultimo deve camminare da solo. Finalmente in piedi, Terry torna ad essere “qualcuno” (e non più “un nessuno” come si era autodefinito) e guida la sua gente verso una giornata di lavoro difficile, ma non più vincolata dal giogo criminale.

Come tutti i grandi film, Fronte del porto non è l’opera di un solo uomo, ma costituisce l’insieme di tanti contributi in stato di grazia. La sceneggiatura, innanzitutto, è di rara finezza e regala agli attori decine di battute memorabili. È di Budd Schulberg, che aveva rilevato il progetto iniziale di Arthur Miller dopo che quest’ultimo aveva rifiutato – come abbiamo visto – le pressioni dello studio. Pur ispirandosi a una serie di articoli del giornalista investigativo Malcolm Johnson, pubblicati nel 1948 sul New York Sun e che valsero al suo autore un premio Pulitzer l’anno successivo, Schulberg compose una vera e propria sceneggiatura originale. Colpisce la convergenza dei sentieri di Kazan e Schulberg. Il giornalista era anche membro del Partito Comunista e a sua volta fornì diversi nomi all’HUAC… dopo che a sua volta era stato “venduto” da qualcun altro. La carriera di Schulberg come sceneggiatore cinematografico (anche romanziere, produttore e giornalista sportivo) fu breve ma notevole, poiché sue sono anche la sceneggiatura di Il colosso d’argilla (The Harder They Fall, 1957), di Mark Robson e quella di Un volto nella folla (A Face in the Crowd, 1957), con la quale si riunì con Elia Kazan.

La produzione era di Sam Spiegel, che si era appena fatto un nome producendo La regina d’Africa (The African Queen, 1951), diretto da John Huston. Sebbene Fronte del porto non beneficiasse certo di un budget elevato (meno di un milione di dollari; e anche questa cifra fu raggiunta solo dopo che Brando accettò di partecipare al casting), Spiegel fu un ottimo partner per Kazan, permettendogli in particolare di girare in location reali, senza le quali il film sarebbe stato molto diverso… Dopo aver vinto l’Oscar per il miglior film con Fronte del porto, Spiegel ne otterrà altri due con i capolavori di David Lean (Il ponte sul fiume Kwai e Lawrence d’Arabia), e produrrà altri lavori notevoli come Improvvisamente, l’estate scorsa (SuddenlyLast Summer, 1959), di Joseph L. Mankiewicz, o La caccia (The Chase, 1966) di Arthur Penn, prima di ritrovare Kazan nel suo ultimo film Gli ultimi fuochi (The Last Tycoon,1976).

Vale la pena menzionare anche la straordinaria colonna sonora, composta da Leonard Bernstein: si tratta dell’unica vera colonna sonora originale composta da Bernstein, che lavorò spesso per il cinema ma adattò sempre temi già esistenti, la maggior parte dei quali erano musiche tratte da un musical. Infine, nella fotografia troviamo Boris Kaufman, russo di nascita e fratello minore di Dziga Vertov, la cui eccezionale carriera lo portò dapprima in Europa, in particolare al fianco di Jean Vigo (Zéro de conduit, L’Atalante …), prima di stabilirsi negli Stati Uniti. e lavorare con Kazan, Martin Ritt, Otto Preminger, e soprattutto con Lumet (niente meno che sette film).

Alla fine il film vinse otto Oscar (su dodici nomination), compreso quello per il miglior film, miglior attore (Marlon Brando), migliore attrice non protagonista (Eva Marie Saint) e miglior regia.

Se Kazan, e la sua squadra dietro la macchina da presa, meritano gli elogi più lusinghieri per il ruolo svolto nella creazione di un vero gioiello della settima arte, la maggior parte dei commenti si è da subito concentrata sulla performance degli attori. In particolare su quella del protagonista, Marlon Brando, al punto da trascurare talvolta gli altri interpreti principali, anch’essi al vertice della loro arte. C’è da dire che all’epoca Brando, in una manciata di anni, era già diventato un fenomeno, addirittura un’icona. Dopo lo shock di Un tram che si chiama Desiderio (A Streetcar Named Desire, 1951), sempre di Kazan, che lo rivelò al grande pubblico, l’attore aveva dimostrato di saper interpretare tutto: una grande produzione storica come Viva Zapata! (id., 1952), ancora Kazan; l’ottimo adattamento shakespeariano Giulio Cesare (Julius Caesar, 1953), di Joseph L. Mankiewicze; e un vero e proprio fenomeno di costume come Il selvaggio (The Wild One, 1953), di László Benedek.

Con le qualità e il genio propri dell’attore, era anche un nuovo tipo di recitazione che si affermava nel cinema americano. Marlon Brando era diventato l’ambasciatore più prestigioso del Metodo, e da solo rappresentava un vero passaggio generazionale nella sua professione. Dopo l’avvento di Brando, nulla sarà più come prima.

Tuttavia, come spesso accade, ci è voluta una buona dose di fortuna perché l’attore si ritrovasse protagonista del film e contribuisse, in maniera considerevole, a renderlo il classico che è diventato. Tormentato nella vita privata, Brando aveva iniziato una terapia e non aveva né il cuore né la testa per un progetto come questo. Il ruolo di Terry Malloy era stato affidato a Frank Sinatra, originario di Hoboken, ma un contratto formale non era ancora stato firmato ed Elia Kazan preferì ancora Brando per interpretare il ruolo. Il regista ingaggiò Karl Malden per il ruolo del prete, ma gli chiese anche di girare un breve saggio con due attori anch’essi formatisi all’Actors Studio, Paul Newman e Joanne Woodward. Un test che avrebbe aiutato a convincere il produttore Sam Spiegel del tipo di attore adatto al ruolo, e quindi Brando fu contattato di nuovo. Alla fine accettò e Sinatra, raccontano le cronache, non celò la sua rabbia.

Brando godeva di un fisico e di un carisma ammalianti, ma l’attore non aveva mai fatto affidamento su queste due doti. Personalità complessa, all’interno della quale affiorava costantemente la tentazione autodistruttiva, Brando, al contrario, spesso decostruiva consapevolmente l’immagine che riusciva a proiettare. La profondità della sua recitazione, le sfumature che apportava a tutti i personaggi che ha interpretato, erano parte integrante della sua “costruzione”. In Fronte del porto, Terry Malloy avrebbe potuto essere un personaggio perfettamente “leggibile”: un ragazzo che si crede un duro, ma la cui apparente insensibilità nasconde a malapena la consapevolezza di essere un fallito e di aver bisogno di essere amato per quello che è veramente. Brando coglie questa tipologia di personaggio e la porta in un territorio sconosciuto sul grande schermo in quel momento. Terry Malloy viene sezionato intimamente. L’impossibilità di essere un personaggio unidimensionale (anche se lo desidera), le violente contraddizioni che lo abitano e i confronti esterni che scuotono la sua coscienza, sono semplicemente le angosce di un uomo. Ed è così che Terry Malloy va oltre lo status di personaggio cinematografico e diventa un essere umano che emoziona e affascina. Perché ci riconosciamo in lui.

Ma Brando è ben supportato. Karl Malden, che interpreta padre Pete Barry, era molto vicino a Kazan da quando avevano lavorato insieme al Group Theatre quasi vent’anni prima. Si era poi unito al cast di Un tram che si chiama Desiderio, film per il quale vinse l’Oscar come miglior attore non protagonista. Dopo Fronte del porto, recitò di nuovo per il regista Baby Doll – La bambola viva (Baby Doll, 1956). Attore più convenzionale di Brando, Malden fa comunque un lavoro impressionante in Fronte del porto, e riesce a dare sostanza a un personaggio più canonico per lo spettatore, meno tormentato degli altri personaggi principali. Eva Marie Saint, anche lei proveniente dall’Actors Studio, è qui al suo esordio cinematografico e con il suo fisico fragile, la sua bellezza discreta, la sua emozione e la sua autenticità riesce a dare vita al magnifico personaggio di Edie Doyle. Rod Steiger, altro “puro prodotto” dell’Actors Studio, interpreta qui il ruolo di Charley “the Gent” Malloy, fratello di Terry e fedele luogotenente di “Johnny Friendly”. Steiger avrà, come sappiamo, una lunga carriera con ruoli indimenticabili. Infine, Lee J. Cobb, eccellente, nel ruolo del paternalista boss mafioso “Johnny Friendly”. Anche lui aveva recitato con Kazan al Group Theatre, poi in spettacoli sotto la sua regia. Anche lui fu accusato di essere stato comunista e, minacciato di inserimento nella lista nera, “fece” una serie di nomi nel 1953.

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