Affresco disilluso di un’esistenza priva di punti di riferimento, punteggiata da rimpianti e bugie, Bersaglio di notte (Night Moves, 1975) di Arthur Penn si distingue per la sua amara lucidità. Il detective Harry Moseby (Gene Hackman) è incaricato da un’ex attricetta collezionista di uomini diventata ricca per essere riuscita ad accalappiare un pezzo grosso di ritrovare sua figlia di 16 anni, Delly (Melanie Griffith). La ragazza si rivela un’adolescente dai costumi molto liberi che è appena scappata di casa. Mentre scopre che sua moglie Ellen (Susan Clark) lo tradisce con un altro uomo, Harry parte alla ricerca di Delly e finisce per rintracciarla in Florida in compagnia del patrigno Tom Iverson (John Crawford), di cui divide il letto insieme all’amante Paula (Jennifer Warren). Stanco e desideroso di fare un passo indietro, Harry, affascinato da Paula, decide di passare un po’ di tempo dai suoi ospiti nella casa in riva al mare, prima di portare a termine il suo compito. Ma si troverà immischiato in pericolosi misteri di cui è ben lontano dal sospettare l’esistenza…

Grande film degli anni ’70 oggi un po’ dimenticato, Bersaglio di notte è il risultato dell’incontro propizio di tre grandi talenti del cinema. Arthur Penn, il regista che con lavori come Gangster story, La caccia, Missouri e Piccolo grande uomo ha svolto un ruolo primario nella rivoluzione del cinema americano alla fine degli anni ’60, accetta questo film che doveva essere originariamente diretto da Sydney Pollack, a condizione di poter uscire dagli stereotipi del genere, in particolare riguardo all’immagine del detective.
Il brillante sceneggiatore Alan Sharp – autore, tra le altre, della sceneggiatura dell’eccellente western romantico e tragico Il ritorno di Harry Collings (The hired hand) di Peter Fonda – che si distingue per la profondità e la correttezza con cui ritrae i personaggi e le loro relazioni, dà a Penn tutti gli elementi per sfuggire alla cornice troppo formattata e troppo ristretta del poliziotto tradizionale. La storia prosegue la tradizione dei film noir americani che spesso seguono la traiettoria del detective dando la precedenza alle sue peregrinazioni personali rispetto all’indagine, spesso confusa o pretestuosa (si pensi a due capolavori come Il grande sonno o Il mistero del falco).
Infine Gene Hackman, immenso attore che aveva già incrociato il regista sul set di Gangster story e nel frattempo ottenuto il successo commerciale ne Il braccio violento della legge di William Friedkin e La conversazione di Francis Ford Coppola. Come sempre perfetto, Hackman interpreta un mix piuttosto raro di forza bruta e raffinatezza, dando brillantemente vita a questo detective diventato guscio di noce sull’oceano tormentato della sua vita interiore. Con ostinata alienazione simile a quella dell’iconico “Papà” Doyle de Il braccio violento della legge, l’investigatore si perde nella propria trappola che, attraverso una complessa esplorazione di rapporti umani ambigui e contorti, porta a un finale tanto violento quanto geniale dal punto di vista cinematografico (Arthur Penn fornisce la spiegazione del mistero senza una parola, in termini puramente visivi).
L’alchimia tra questi tre grandi funziona perfettamente: Gene Hackman riesce ad esprimere tutta la profondità del personaggio immaginato da Alan Sharp, e la regia di Arthur Penn valorizza la performance del suo protagonista, in particolare attraverso numerosi piani stretti sul suo viso.

Prima che nella trama poliziesca, peraltro abbastanza minimalista perché l’investigatore deve fare ben poco per risolvere il caso e quasi sbatte contro la soluzione, l’interesse del film risiede nella storia di un uomo e nel modo in cui vive e sente gli eventi attraverso il filtro dei traumi della sua stessa esistenza. Ex grande giocatore di football americano, Harry Moseby è una sorta di antieroe chandleriano, sconfitto e imperfetto. La sua vita è segnata da fallimenti personali e da zone d’ombra; abbandonato dai genitori, non è più riuscito a incontrare suo padre nonostante l’avesse rintracciato; sua moglie lo tradisce, come scopre per caso; la sua professione è l’espressione di una ricerca di verità illusoria, della ricomposizione di un ordine, e per questo si convince di amarla nonostante i suoi aspetti sordidi. Tutti questi elementi propri della vita del personaggio principale determineranno il suo totale coinvolgimento nel caso che gli viene affidato, che si rivela molto di più della banale fuga di un’adolescente inquieta. Il modo in cui Harry Moseby si affeziona ai personaggi che incontrerà e si lascerà coinvolgere personalmente nella loro storia esprime soprattutto la ricerca di sé stesso e di una verità a cui aveva rinunciato, preferendo una fuga perpetua verso il futuro. Se Hollywood ha spesso sovrapposto alla posta in gioco iniziale le sfide personali dell’eroe, raramente questo cliché è stato sfruttato con tanta finezza.

Da segnalare altri personaggi interessanti come Delly (la giovanissima Melanie Griffith), molto provocante e allo stesso tempo innocente, Paula (Jennifer Warren), una donna in cerca di riscatto dal carattere ambiguo, Ellen (Susan Clark), che cerca di mettere Harry di fronte alle sue contraddizioni e la cui relazione adultera si rivela un modo per comprendere meglio suo marito e ciò che è cambiato in lui; figure al femminile che fanno da contrappunto efficace al protagonista e testimoniano una consistenza reale con le loro sfumature.
Cinismo, manipolazioni, apparenze ingannevoli: molti critici hanno associato – probabilmente a ragione – questi aspetti del film all’America del Watergate, dove la menzogna e il doppio gioco si intromettevano anche nelle più alte sfere del potere; ma il film è anche rivelatore dell’epoca della guerra del Vietnam, quando gli States erano una nazione alla ricerca continua di nuove certezze e punti di riferimento.
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