La poesia può cambiare la vita o la storia? Patrizia Cavalli risponderebbe: no “le mie poesie non cambieranno il mondo”. E ben prima della Cavalli, Sergio Corazzini scriveva: “Perché tu mi dici: poeta?/Io non sono un poeta./Io non sono che un piccolo fanciullo che piange./Vedi: io non ho che lagrime da offrire al Silenzio./Perché tu mi dici: poeta?”. Insomma, per fortuna non tutti i poeti pensano di essere Lord Byron, non tutti i peòti (il refuso anagrammatico è voluto) si considerano Titani o Braveheart dello Spirito. Di tutt’altro parere sarebbe il professor Keating (Robin Williams) ne L’attimo fuggente (1989) di Peter Weir, film su cui Massimo Moscati ha fornito una rilettura originale (alla quale non avrei mai pensato). Ma il tema-chiave de L’attimo fuggente è la poesia, o meglio il modo anti-convenzionale con cui si può, e si dovrebbe, secondo il professor Keating, leggere e insegnare la poesia; che può essere anche una forma di risveglio alla realtà per ridare slancio alla vita, quasi sempre ingessata, per non dire ingabbiata, dalle convenzioni sociali e dai doveri. 

L’arte del verso ritorna come leitmotiv anche in Paterson (2016), uno dei film più originali del regista James Robert (Jim) Jarmush. La differenza non irrilevante tra le due storie è che, mentre la trama de L’attimo fuggente si svolge in un collegio del New England dove studiano i rampolli di ricche famiglie americane, quindi in un’ambientazione più ristretta ed esclusiva, il film di Jarmush declina la poesia nella realtà quotidiana, attraverso la vita di un giovane autista di autobus a Paterson, cittadina nel New Jersey, legata ai nomi di poeti come William Carlos Williams (che a Paterson ha dedicato cinque volumi di poesie) e Allen Ginsberg, che vi hanno vissuto e scritto, ma anche di personaggi come Gaetano Bresci, l’anarchico italiano che uccise re Umberto I, fatto storico, quest’ultimo,  rievocato da due studenti in una delle tante conversazioni che Paterson, il protagonista del film, interpretato da Adam Driver, ascolta mentre è alla guida dell’autobus.

Paterson vive con Laura, richiamo forse non casuale alla donna amata e cantata da Francesco Petrarca: dividono l’appartamento con un bulldog che distruggerà a morsi il dattiloscritto delle poesie di Paterson. La storia è molto semplice, ma Jarmush riesce a dare un senso quasi magico a una vicenda esistenziale in apparenza noiosa, improntata a una routine quotidiana che l’esercizio poetico sottrae all’alienazione: Paterson si porta dietro il taccuino e scrive le sue poesie nei ritagli di tempo, per esempio prima di mettere in moto l’autobus e partire per il solito turno di lavoro. La poesia nasce spesso dalla visione di oggetti quotidiani di cui non ci accorgiamo più: per esempio, una scatoletta di fiammiferi, con la scritta a forma di megafono, diventa il pretesto per sviluppare una poesia che abbini quei fiammiferi all’amore. E così leggiamo sullo schermo i versi composti mentalmente da Paterson durante il tragitto casa-lavoro. Laura è la sua principale e direi unica fan: lo esorta a pubblicare le poesie, cosa che lui le promette di fare, senza molta convinzione; e finirà per dimenticarsi della promessa; indugio fatale, visto quello che succede alla fine: il  botolo dispettoso gli distrugge a morsi tutto il dattiloscritto. E Paterson dovrà ricominciare da capo scrivendo su un quaderno regalatogli da un misterioso poeta giapponese che egli incontra casualmente nel corso di una passeggiata alle Great Falls del fiume Passaic. 

È un film che non ha pretese didascaliche, non pontifica, non vuole accendere passioni o ideali come L’attimo fuggente: Paterson ritrae  una vita normale in una tranquilla realtà metropolitana, dove si può ancora passare la serata in un locale dall’atmosfera calda e accogliente davanti a una birra parlando del più e del meno con il proprietario. Il bar che Paterson frequenta è un luogo familiare, un approdo della memoria, anche storica visto che il barista ama illustrare a Paterson i nativi del luogo più illustri, come Lou Costello, l’attore che formò con Bud Abbott il celebre duo comico americano di Gianni e Pinotto. Non c’è retorica: il film non è appesantito dalla paccottiglia romantico-kitsch di certi film biografici sui poeti-vati e alati cantori del sublime; né troviamo l’atteggiamento pseudo-rivoluzionario di un professore anticonformista che pensa di insegnare meglio la poesia facendo strappare ai suoi allievi le pagine introduttive di un manuale propedeutico (scena che mi diede parecchio fastidio quando vidi il film la prima volta: come poeta non avrei dato molto credito a un docente che mi esorta a strappare le pagine di un trattato di metrica e versificazione).

Il professor Keating insegna ai suoi allievi che la poesia deve cambiare profondamente la vita delle persone, rivelando l’autentica natura e la vera vocazione di un individuo: affermazione teoricamente plausibile, ma che presenta non pochi rischi soprattutto se si imprime nella cera ancora morbida di caratteri imberbi e insicuri: infatti, uno degli allievi, membro del risorto circolo dei poeti defunti, si suiciderà a causa dell’insostenibile dissidio con il solito genitore intransigente che teme la vocazione del figlio e pur di non vederlo recitare lo toglie dal collegio. C’è infatti molta retorica nel film di Weir e nel personaggio di Keating in particolare. Paradigmatico è il dialogo con McAllister, un collega di Keating più sobrio e meno smaccatamente pindarico: “correte un brutto rischio a incoraggiare la loro passione per l’arte: quando si accorgeranno di non essere Rembrandt, Mozart o Shakespeare la odieranno”. Keating replica sottolineando garbatamente il cinismo di McAllister il quale gli risponde: “non sono cinico, sono realista: mostratemi un cuore non contaminato da folli sogni e io vi mostrerò un uomo felice”. Keating risponde che solo nei sogni gli uomini sono davvero liberi. In questo scambio di battute è condensata la duplice problematica del L’attimo fuggente: quali sono i rischi di un certo tipo di insegnamento e qual è la natura la poesia. Nulla di così tragico e impegnativo in Paterson per il quale la poesia, lungi dall’essere in conflitto con la vita quotidiana, ne è discreta e fedele compagna. Paterson non pubblica, non è un divo dei reading poetici, non frequenta accolite o cricche: si accontenta di pensare e scrivere le sue poesie. Mentre L’attimo fuggente può essere visto come un saggio cinematografico sull’antitesi, tipicamente giovanil-romantica e poi decadente tra arte e vita, in Paterson la poesia scorre spontaneamente parallela alla vita di tutti i giorni come pura esperienza interiore, mentale. 

Negli ultimi anni abbiamo visto diversi film su poeti: dal Giovane favoloso (2014) di Mario Martone, dedicato alla vita di Giacomo Leopardi al Cattivo poeta (2020) di Gianluca Jodice su una precisa fase della vita di Gabriele D’Annunzio (Sergio Castellitto), quella già del ritiro al Vittoriale, dove un giovane bresciano, Giovanni Comini, viene inviato (siamo nel 1936) da Achille Starace per studiare la posizione del Vate, che notoriamente non stimava né Mussolini né le sue “camicie sordide”. Entrambi i film, soprattutto il secondo, presentano un interesse più storico-biografico che letterario in senso stretto. Lo stesso si potrebbe dire per il Dante di Pupi Avati (2022) nel quale la vita dell’Alighieri è narrata attraverso la figura di Giovanni Boccaccio, interpretato da Sergio Castellitto. Ma Paterson è un film a sé: non è la biografia di un poeta famoso, ma è la poesia stessa che si manifesta nella vita di tutti i giorni. Antiretorico e perciò vero, perché i versi nascono spesso così, nei momenti più banali e inaspettati se -e non è un evento frequente- la Grazia della Musa discende su chi scrive. 

Jim Jarmusch

Azzardo a supporre che a Paterson sarebbe piaciuto più Guido Gozzano che John Keats o Lord Byron: “Oh!  Questa vita sterile di sogno! /Meglio la vita ruvida concreta/del buon mercante inteso alla moneta, /meglio andare sferzati dal bisogno, /ma vivere di vita! Io mi vergogno, /sì mi vergogno d’essere un poeta! Tu non fai versi. Tagli le camicie/per tuo padre. Hai fatta la seconda/classe,  t’han detto che la terra è tonda, /ma tu non credi.. e non mediti Nietzsche. /Mi piaci. Mi faresti più felice /d’un’intellettuale gemebonda…. “. Sono due sestine della sesta parte del poemetto La Signora Felicita. Gozzano sviluppa con benevola ironia il tema del regresso intellettuale e culturale come unico scampo alla malattia spirituale tipica degli intellettuali e dei poeti: la catabasi depressiva nell’Ade dell’intelligenza, condanna inevitabile per chi medita realmente e realmente soffre. Quindi, la risposta di Gozzano è “Ed io non voglio più essere io! Non più l’esteta gelido, il sofista, /ma vivere nel tuo Borgo natio, /ma vivere alla piccola conquista/mercanteggiando placido,  in oblio/come tuo padre, come il farmacista”. 

Questa nostalgia gozzaniana per la vita semplice e tranquilla non cela, almeno nella Signora Felicita, un intento polemico per un perduto romanticismo. È una sincera ammissione della crisi di modelli culturali iper-romantici, superomistici ed eroici. È una risposta “poetica” anche questa come il fin troppo decantato Carpe Diem consigliato da John Keating nella famosa scena della bacheca: quando Keating raduna i suoi allievi fuori dalla classe e li porta davanti a una serie di vecchi ritratti di ex studenti ormai cenere-polvere-terra. Solo dopo che gli allievi si perdono nella contemplazione di quelle foto-testimonianze di un remoto passato, Keating sussurra loro il monito oraziano del “Carpe Diem” cioè “Seize the Day” “Cogli l’attimo”. L’attimo fuggente, appunto. Un monito sempre attuale, anche se spesso irrealizzabile, perché l’istinto più autentico del poeta è quello di Paterson: contemplare, pensare, scrivere. 

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