Dalla commedia di George Bernard Shaw Pigmalione deriva il modello che ispira il cinema, il teatro, il musical. A Pigmalione si rifanno anche film come Pretty Woman e Una poltrona per due. Luigi Pirandello rovescia lo schema mitico in Diana e la Tuda, mettendo al centro il conflitto tragico tra arte e vita.
Tra le storie più famose e attuali della mitologia antica greco-romana, ma anche fra le più fraintese e liberamente interpretate soprattutto nel cinema, spicca la vicenda di Pigmalione, narrata dal poeta latino, nativo di Sulmona, Ovidio, nelle sue Metamorfosi. Nel libro X di quel poema straordinario e acentrico (giusta la definizione di Italo Calvino) la ‘cotta’ di Pigmalione per la sua opera, una donna così ben scolpita da sembrare viva, è classificabile come uno degli “amori impossibili”.
Il termine ‘Pigmalione’ è oggi comunemente usato per indicare un mentore, un coach che ti educa, ti plasma e ti conduce al successo; insomma, un talent scout: un’accezione che si deve alla commedia di George Bernard Shaw, Pigmalione, rappresentata la prima volta nel 1913. Al cinema ricordiamo, come tributi diretti, i Pygmalion di Ludwig Berger (1937) e quello dell’anno successivo (1938) di Antony Asquith. Poi My Fair Lady (1956), la versione musical di Pigmalione più famosa, cui segue la versione su grande schermo (1964) con Audrey Hepburn e Rex Harrison; e il film del 1983, regia di Alan Cooke, con Peter O’Toole. Anche Kiss me (She’s all that), del 1999, rivisita il mito di Pigmalione. Persino Pretty Woman (1990), regia di Garry Marshall, con Richard Gere (Edward) e Julia Roberts (Vivian), si può considerare più un adattamento del Pigmalione di Shaw che una versione moderna di Cenerentola: il vero Pigmalione in Pretty Woman è Barney Thompson, interpretato da Hector Elizondo, il direttore dell’albergo di lusso a Hollywood che si incarica di insegnare a Vivian, bellissima passeggiatrice notturna – ingaggiata dall’uomo d’affari (Edward) per recitare il ruolo di fidanzata – a comportarsi e ad abbigliarsi come una donna del jet set, onde ben figurare quale degna Aspasia-accompagnatrice.
La storia alla base del Pygmalion di Shaw – e degli altri principali film che abbiamo citato – è nota, ma giova ripassarla: il professore di fonetica Henry Higgings scommette con l’amico, colonnello Pickering, di trasformare la popolana Eliza Doolittle in una raffinata dama della buona società insegnandole l’etichetta e soprattutto l’accento delle classi alte. Eliza, fioraia, parla, infatti, il cockney, un dialetto londinese dell’East End, che in realtà è una lingua nella lingua (by the way, attori come Michael Caine vanno fieri delle loro radici cockney). Comunque, il nucleo di questa celeberrima commedia ritorna come archetipo in narrazioni che ne rielaborano l’emblematico schema: altro caso esemplare, prima ancora di Pretty Woman, è Una poltrona per due (1983) di John Landis, nel quale due ricchi, annoiati (e stronzi) broker scommettono per 1 dollaro sulla possibilità, o meno, di trasformare Valentine, un povero mendicante di colore – interpretato da Eddie Murphy – in un provetto-vincente squalo della Borsa Merci. Ci riescono; ma l’ebbrezza dura poco: Valentine, asceso ai fastigi del successo e della ricchezza, e Louis Winthorpe (Dan Aykroyd), l’ex vincente di cui Valentine aveva preso il posto, si vendicheranno con uno stratagemma che riduce i due vecchiacci sul lastrico. E alla nuova coppia Murhpy-Aykroyd si unisce Jamie Lee Curtis nel ruolo di Ophelia, una prostituta molto carina e ancor più intelligente, che ha l’umanità di accogliere nel suo modesto ma confortevole flat l’ex arrogante Winthorpe spodestato e caduto dalle stelle alle stalle.
Ma chi è veramente Pigmalione? Nel mito classico Pigmalione era un abile scultore, un mix tra Policleto, Michelangelo e Canova. Portata a compimento una sua bellissima statua di donna, di cui si innamora perdutamente (“operisque sui concepit amore”, scrive Ovidio), prega Venere che animi la seducente e perfetta creatura eburnea affinché l’artista-creatore possa amarla. Il mito narrato da Ovidio anticipa di secoli l’ideale degli androidi e dei cyborg: un Golem ante litteram! Il rapporto scultore-modella, Pigmalione-statua, ritorna in Luigi Pirandello (1867-1938) attraverso Diana e la Tuda nella quale ritroviamo il dramma dell’artista che non può risolvere l’antitesi arte-vita identificandosi e annullandosi totalmente nella forma ideale creata. Diana e la Tuda (la cui prima si tenne a Milano nel 1927, con Marta Abba nel ruolo di Tuda) è un delle pièce meno conosciute, credo, della produzione drammaturgica pirandelliana, eclissata ingiustamente da opere più note e rappresentate come Sei personaggi in cerca d’autore, Stasera si recita a soggetto, Enrico IV, Così è (se vi pare), Il berretto a sonagli. La vicenda del giovane scultore Sirio Dossi e della modella, Tuda, costretta a pose estenuanti affinché il Dossi realizzi una perfetta statua di Diana, è una metafora per rappresentare il conflitto fra arte e vita. Il terzo protagonista, a fianco di Sirio Dossi e Tuda, è Nono Giuncano, l’anziano maestro del Dossi. Giuncano solo in tarda età ha compreso di aver sprecato la vita inseguendo gli ideali della perfezione artistica. La rabbia generata da tale resipiscenza lo ha spinto a distruggere le sue statue: un Jimi Hendrix ante litteram.
Diana e la Tuda mette in scena il conflitto che scaturisce dal mancato equilibrio di due dimensioni fondamentali: la passione e il distacco emotivo dal modello di partenza per raggiungere la perfezione nella rappresentazione artistica. La tragedia ripropone un tema caro a Pirandello: l’antitesi tra la forma e la vita, tra l’agognata perfezione dell’opera artistica (la statua) e la vitalità di Tuda, la perfezione che non vive e la bellezza vivente ma effimera. Dossi deve lavorare su un’elaborazione classico-idealistica del bello, ma la statua diventa un’ossessione per lui e per Tuda che soffre nel sentirsi considerata solo come modella e non come donna. Giuncano rappresenta l’artista pentito (o incompiuto?) che ritorna, purtroppo tardi (ma è sempre così) alla vita, non solo e non tanto perché deluso dall’arte, ma perché ha constatato l’impossibilità di esaurire “tutta” la vita nell’arte, o più semplicemente perché la vitalità ossia l’esperienza e la realtà nelle loro molteplici manifestazioni sono come l’oceano che l’artista vorrebbe fissare ed eternare in un acquario contemplativo.
Se nel mito classico, Pigmalione soffre perché alla sua statua, bellissima e perfetta, manca solo la vita (gli dèi risponderanno alle sue preghiere animando la donna scolpita così bene), lo scultore Sirio Dossi vive un dramma parallelo e quasi opposto: non può sopportare che la bellezza e la vitalità di Tuda mantengano un’autonoma superiorità sulla sua idealizzata rappresentazione. Pigmalione, fortunato, ottiene dagli dèi l’animazione della donna scolpita; in Pirandello, Sirio Dossi non riesce ad accettare l’irrequietudine vitale, e perciò imperfetta, di Tuda preferendole la fredda bellezza dell’opera d’arte che dovrebbe riprodurla ed eternarla. O forse perché Tuda è già, per quanto viva e caduca, un’opera d’arte inimitabile. Nel mito classico il conflitto arte-vita viene risolto con il miracolo della transustanziazione estetica (l’opera, la scultura, di Pigmalione si anima: l’avorio diventa carne).
Ma noi siamo nell’incubo quotidiano dove la vita è sempre inferiore all’arte.
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