Ci sono saggi scritti con una penna talmente felice che la loro lettura risulta scorrevole e appassionante come quella di un romanzo, pur senza sacrificare nulla in termini di attendibilità e rigore. È questo il motivo che rende La nobiltà della sconfitta di Ivan Morris un’opera classica della storiografia allo stesso tempo celebre e popolare.
Il britannico Ivan Ira Esme Morris (29 novembre 1925 – 19 luglio 1976) fu attivo nell’ambito degli studi giapponesi, che avviò alla Harvard University. Autore di numerose monografie sul Giappone antico e moderno e traduttore di opere letterarie classiche e moderne, Ivan Morris fu tra i primi interpreti inviati a Hiroshima dopo l’esplosione della bomba. Amico personale di Yukio Mishima a cui il libro è dedicato, scrisse La nobiltà della sconfitta anche per contestualizzare il suicidio rituale del grande scrittore.
Lo storico inglese identifica il concetto di hōganbiiki, o simpatia per il perdente, come elemento cruciale nella definizione dell’archetipo dell’eroe del paese del Sol Levante. Quando scrisse il suo saggio – era il 1975 – gli Occidentali avevano ancora negli occhi le gesta dei kamikaze della Seconda guerra mondiale: davvero poteva bastare il fanatismo bellico e nazionalista a spiegare le azioni di giovanissimi soldati mandati a schiantarsi con gusci di noce contro le corazzate americane oppure esistevano radici più profonde? Più che la speranza di successo (le risorse del Giappone erano talmente immiserite che negli ultimi mesi del conflitto i veicoli pieni di esplosivo lanciati contro gli obiettivi nemici il più delle volte non avevano neanche il motore…), ad animare quelle missioni suicide era un sentimento profondamente radicato nella cultura giapponese che richiede da parte dell’eroe una fedeltà tale alla causa da andare incontro alla sconfitta pur nella piena consapevolezza che il suo destino lo condurrà fino all’annientamento.
In una rassegna affascinante e documentatissima, Morris guida il lettore con senso della misura e perfetto equilibrio attraverso i secoli. Sebbene La nobiltà della sconfitta sia strutturato sotto forma di schizzi di singoli personaggi, in realtà costituisce una pratica guida alla storia giapponese nel suo complesso, con la carrellata di molti dei principali eventi degli ultimi millecinquecento anni. Senza pretesa di esaustività, Morris colloca abilmente i protagonisti nel loro contesto, spiegando cosa ha portato alla loro ascesa e caduta, ed esponendo i fatti nel loro insieme.
I dieci capitoli tratteggiano alcuni personaggi importanti scelti da Morris attraverso i secoli: nove profili (l’ultimo capitolo è dedicato ai kamikaze) a partire dal leggendario guerriero del IV secolo Yamato Takeru e passando da uomini come lo sfortunato generale del XIV secolo Kusunoki Masashige. Lo storico inglese mette in luce l’ascesa e la caduta di alcune personalità affascinanti – lo straordinario Saigō Takamori, forse l’ultimo dei veri samurai – eroi tragici che hanno avuto grande successo in battaglia o a corte prima di essere traditi o semplicemente di ritrovarsi dalla parte sbagliata della storia, che ha reso la loro caduta ancora più toccante
Naturalmente ciò che fa funzionare queste storie è il loro finale. Il tratto comune di tutti gli eroi è la capacità di rendersi conto di quando è arrivato il loro momento, e il coraggio di accettare la morte senza batter ciglio. Consequenzialmente, il suicidio volontario diventa l’opzione onorevole per l’eroe fallito: fin dai primi periodi documentati della storia giapponese, l’autodistruzione di un guerriero fu accettata come una liberazione dalla vergogna, un atto di onore e coraggio e una prova definitiva di integrità.
Senza comprendere questo punto chiave, potrebbe essere difficile per alcuni lettori capire perché queste persone sono venerate al di sopra degli altri, soprattutto quando Morris chiarisce che spesso non avevano la reale idea di quelle che sarebbero state le conseguenze delle loro insurrezioni o ribellioni e che, viceversa, la loro sconfitta avrebbe portato un progresso collettivo. Nella maggior parte dei casi, gli avversari degli eroi descritti sono uomini politici o militari razionali che fanno ciò che è meglio per il clan o il paese. Eppure il successo non garantisce popolarità presso i giapponesi, tutt’altro: Ashikaga Takauji, il vincitore del fiume Minato, che fondò un nuovo shogunato e che secondo qualsiasi standard oggettivo deve essere classificato come uno degli uomini veramente creativi del suo tempo, fu diffamato dalle generazioni successive e il suo nome divenne sinonimo di tradimento. Durante il periodo della Restaurazione, le sue statue a Kyoto furono decapitate da guerrieri lealisti, e negli anni ’30 un ministro del gabinetto fu addirittura costretto a dimettersi dal governo perché aveva scritto un articolo pro-Takauji su una rivista. Tali sono i pericoli del successo in Giappone!
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