In Midnight in Paris (2011), uno dei più bei film di Woody Allen, il protagonista, Gil Pender (l’attore Owen Wilson), un giovane sceneggiatore americano in trasferta a Parigi, vive, scoccata la mezzanotte, un’esperienza onirica che sembra reale, il classico sogno ad occhi aperti: un salto indietro nel tempo che lo riporta alla Parigi della Generazione Perduta, quella di Ernest Hemingway, Pablo Picasso, Salvador Dalì, Jean Cocteau, Francis Scott Fitzgerald, ma anche T.S. Eliot, Henry Matisse, Luis Buñuel, Josephine Baker, Juliette Greco, insomma tutta la banda di artisti e scrittori già in larga parte descritta da Gertrude Stein (interpretata, nel film di Woody Allen, dall’attrice Kathy Bates) nel suo Autobiografia di Alice Toklas.
Analoghe sensazioni si possono forse provare leggendo e rileggendo Al caffè degli esistenzialisti. Libertà, Essere e Cocktail di Sarah Bakewell. È un viaggio originale in una delle filosofie più affascinanti (e attuali) del XX secolo, costellata di personaggi che hanno lasciato un’orma indelebile nella storia del pensiero contemporaneo, da Jean Paul Sartre e la sua compagna, Simone de Beauvoir, “il re e la regina dell’esistenzialismo”, fino ai loro amici e avversari come Albert Camus, Maurice Merleau-Ponty e Emmanuel Lévinas (una sua breve opera giovanile fu il primo contatto di Sartre con la fenomenologia). Una parte del titolo di questo libro (Libertà, Essere, e Cocktail) nasce da un episodio in apparenza frivolo. Siamo a cavallo tra il 1932 e il 1933. Al Bec-de-Graz, un caffè di Parigi, la cui specialità sono i cocktail all’albicocca, si incontrano tre amici: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e il loro compagno di scuola Raymond Aron. È lui a introdurre Sartre e la de Beauvoir alla fenomenologia, una nuova corrente di pensiero così radicale che, dice indicando i bicchieri, “Se sei un fenomenologo puoi parlare di questo cocktail ed è filosofia!”.
Due dei protagonisti di questo bellissimo saggio, intreccio tra biografia e pensiero, sono gli autori di due libri formativi nei miei vent’anni anni: La nausea, il romanzo filosofico di Jean Paul Sartre e Il mito di Sisifo di Albert Camus. Il protagonista de La nausea, Antoine Roquentin, intellettuale che vive nella piccola città immaginaria di Bouville, narra in forma ora epistolare ora diaristica, il disgusto verso l’in-sé delle cose, la presa di coscienza dell’assurda “fatticità” dell’essere. Anticipa di dieci anni il nouveau roman e il cinema della nouvelle vague. Scrive la Bakewell: “per rendere chiaro questo punto, Sartre innanzitutto divide tutti gli esseri in due classi. Una è quella del pour-soi (per sé), definita unicamente dal fatto che questo genere di essere è libero. Questi esseri siamo noi: è il luogo in cui troviamo la coscienza umana. L’altra specie di esseri è quella dell’en-soi (in sé), in cui è incluso tutto il resto: pietre, temperini, pallottole, automobili, tricicli (…). Queste entità non
hanno decisioni da prendere: devono essere semplicemente loro stesse.
Secondo Sartre, l’in-sé e il per-sé sono contrapposti come lo sono materia e antimateria”. La nausea è la trascrizione di un’esperienza fenomenologica che porta all’emersione del nulla nell’essere. “La nozione del nulla specifico può sembrare strana, ma Sartre la illustra descrivendo una scena di vita da caffè parigino. Immaginate, suggerisce Sartre, che abbia preso un appuntamento per incontrarmi col mio amico Pierre in un caffè alle quattro del pomeriggio. Arrivo con quindici minuti di ritardo e mi guardo intorno preoccupato. Pierre sarà ancora qui? Percepisco un gran numero di cose: clienti, tavoli, specchi e luci, l’atmosfera fumosa del caffè, il crepitio delle stoviglie e un mormorio generale. Ma Pierre non c’è. Quelle altre cose formano un campo contro il quale si staglia un oggetto in modo netto e chiaro: l’Assenza di Pierre. (…) Sartre offre un esempio ancor più illuminante: guardo nel portafoglio e vi trovo 1.300 franchi. È un fatto positivo. Tuttavia, se mi aspettavo di trovarne 1.500, ciò che salta agli occhi è il non-essere dei 200 franchi”.
Tra filosofia e jazz
Nell’elenco dei personaggi del libro della Bakewell figurano, oltre alla de Beauvoir, altre due celebri donne: Anne-Marie Cazalis (1920-1988), una delle muse dell’esistenzialismo, tra la fine degli anni Quaranta e i primi Cinquanta, e Juliette Greco (1927-2020), cantante e attrice, amica di filosofi come Merleau-Ponty e Sartre. Dall’esistenzialismo si dirama infatti una poliedrica e vivace cultura che irrora diversi terreni, dalla musica al teatro, dalla canzone al cinema. La cultura esistenzialista che si affermò negli anni Quaranta ruotava nei dintorni della chiesa di Saint-German-des-Prés, sulla rive gauche parigina. I caffè preferiti da Sartre e da Simone de Beauvoir erano il Café de Flore, Les Deux Magots, o il Bar Napoleon, tutti concentrati nell’angolo tra Boulevard Saint-Germain e Rue Bonaparte.
L’etichetta di esistenzialista non se l’è scelta Sartre. Ma finì per accettarla, e scrisse un celebre Manifesto (L’esistenzialismo è un Umanismo, pubblicato nel 1946) nel quale precisa in che senso va inteso il termine, diventato in breve tempo così alla moda e generico “da non significare più nulla”. Ci sono infatti diversi modi di declinare l’esistenzialismo a livello speculativo. Nonostante i limiti del pensiero di Sartre (che secondo me attribuiva troppa importanza alla libertà dell’uomo in quanto responsabile di qualsiasi azione, dimenticando che l’individuo e la sua coscienza sono in balia di infiniti condizionamenti endogeni ed esogeni che ne limitano la libertà e spesso impediscono l’esercizio del libero arbitrio), noi siamo immersi nella cultura esistenzialista. Come scrive la Bakewell, non ce ne rendiamo conto, ma concetti come “autenticità” “libertà (autodeterminazione)” “femminismo” “impegno” e altri, sono stati elaborati e sviluppati proprio all’interno di quel crogiolo filosofico e ideologico che per comodità cataloghiamo come esistenzialismo.
l fulcro del libro è una carrellata dei principali filosofi del Novecento, da Edmund Husserl (il padre della fenomenologia) a Jean-Paul Sartre passando per Martin Heidegger, il “mago di Messkirch”, docente a Friburgo, e poi costeggiando da vicino Karl Jaspers, Maurice Merleau Ponty, Albert Camus, Simone De Beauvoir, e altre figure riconducibili all’esistenzialismo. Una cultura molto osmotica a quella pop-cine-televisiva, che ha diffuso il jazz, i tabarin poi diventati locali in o trendy: personaggi come Boris Vian (1920-1959), scrittore e musicista jazz, autore di canzoni, di cui potete leggere L’Écume des jours (La schiuma dei giorni, pubblicato da Marcos y Marcos, 2022). Scrive Vian: “Solo due cose contano, nella vita: l’amore in tutte le sue forme con ragazze carine, e la musica di New Orleans e di Duke Ellington. Il resto sarebbe meglio che sparisse, perché il resto è brutto, e la dimostrazione contenuta in questo romanzo deriva tutta la sua forza da un unico fattore: questa storia è totalmente vera, perché io me la sono inventata da capo a piedi”.
Vian morì giovane, e rappresenta un po’ il lato mondano-edonistico-sovversivo dell’esistenzialismo che si trasmetterà anche al mondo del rock. Ma l’esistenzialismo è una filosofia seria, a tratti difficile. Anche l’Italia ha avuto grandi pensatori esistenzialisti: Luigi Pareyson (con cui ha studiato Umberto Eco), Nicola Abbagnano, Enrico Castelli, Enzo Paci, Pietro Piovani, Alberto Caracciolo, Giuseppe Capograssi; ma i padri dell’esistenzialismo novecentesco sono tedeschi e francesi, anche se l’autrice considera Søren Kierkegaard e Friedrich Nietzsche i filosofi anticipatori (nella sua Storia dell’esistenzialismo, Pietro Prini include anche Fedor Dostoevskij, Miguel de Unamuno e Franz Kafka, giustamente secondo me).
Fortemente esistenzialistica è un’affermazione di Albert Camus ne Il mito di Sisifo quando parla del suicidio: non importa quante categorie ha lo spirito, se l’essenza è vera ante rem o in re, se l’essere è veramente più dell’ente; l’unica vera questione è se vale la pena vivere o no. E soprattutto -aggiungo io- se vale la pena nascere, cioè essere-gettati-nel mondo, per usare un’espressione heideggeriana: nascita non è infatti un termine tecnicamente esatto: è più scientifico usare la parola tedesca Geworfenheit (l’essere-gettati-nel-mondo) se vogliamo aderire a un corretto glossario filosofico. Anche questo è esistenzialismo.
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