Sisifo, re di Corinto, era figlio di Eolo e marito di Merope. Irrequieto, crudele e astuto, riuscì persino a incatenare Thanatos (la Morte) che, per ordine di Zeus, era andato a prenderlo, sicché non moriva più nessuno. Ares liberò Thanatos e Sisifo morì. Precipitato nell’Ade, venne condannato a spingere un enorme masso; ma, ogni volta che arrivava in cima, il pietrone rotolava nuovamente e l’immane fatica di Sisifo riprendeva daccapo. Sempre la stessa. Per l’eternità. Nelle versioni più famose delle discese agli Inferi troviamo immancabilmente Sisifo e la sua pena, divenuta proverbiale, come quella di Tantalo, per simboleggiare qualunque vana fatica o impresa. La condanna di Sisifo è anche la raffigurazione più emblematica e antica dell’assurdità: cosa c’è di più assurdo che ostinarsi a spingere un masso destinato a rotolare a valle ogni volta? Il mito di Sisifo è anche il titolo del principale (o del solo) “livre d’idées” (secondo la definizione dello stesso autore in un’intervista del 1945) scritto da Albert Camus (1913-1960).

Ma il Mito di Sisifo di Camus non è un saggio di mitologia classica, anche se il capitolo che dà il titolo al libro delinea i principali miti legati all’ambizioso re di Corinto. Già il fatto che si prenda, dalla bacheca dei personaggi antichi e classici, come titolo emblematico della condizione umana, non Prometeo né Ulisse, ma Sisifo con la sua proverbiale, inutile ed eterna fatica, è un’affermazione esistenzialistica: lo sottolineo ben sapendo che Camus non vorrebbe mai essere associato a Sartre & company. «Camus intende dimostrare che le varie dottrine dell’esistenzialismo, ribaltando l’assurdo, ritrovano sempre la speranza. Il loro “suicidio” non è reale, ma solo “filosofico”. Lo stesso sconcertante frammentarismo della fenomenologia di Husserl si risolve in un nuovo platonismo. C’è dunque un vero e un falso assurdo, e da quest’ultimo si può evadere, come ne evadono appunto gli esistenzialisti. Il vero assurdo è uno stato d’animo in cui la tensione fra uomo, mondo e assurdità di questo viene eroicamente mantenuta: né troncata dalla scomparsa del soggetto che, invece di scegliere il suicidio, porta, continuando a vivere, testimonianza dell’assurdo, e lo vive tormentosamente in sé; né superata in una edulcorante quanto fallace dialettica della speranza» (Corrado Rosso prefazione a Il Mito di Sisifo, Bompiani, I Nuovi Portici 1976). 

L’originalità del Mito di Sisifo risiede, infatti, anche nella critica alle correnti filosofiche più in voga allora, come l’esistenzialismo e la fenomenologia: “La ragione universale, pratica o morale, il determinismo, le categorie che tutto spiegano, hanno di che far ridere l’uomo che ragiona onestamente: non hanno nulla a che vedere con lo spirito e negano la sua profonda verità, che è quella di essere incatenato. (…) Il mondo in sé non è ragionevole: è tutto ciò che si può dire. Ma ciò che è assurdo, è il confronto di questo irrazionale con il desiderio violento di chiarezza, il cui richiamo risuona nel più profondo dell’uomo”.

Il vero problema filosofico 

«Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto -se il mondo abbia tre dimensioni o se lo spirito abbia nove o dodici categorie -viene dopo». Così inizia questo libro cult della mia giovinezza, Il mito di Sisifo di Albert Camus, il suo libro filosofico più famoso, pubblicato nel 1942, immediatamente dopo quel formidabile racconto che è Lo straniero. Il mito di Sisifo è un libro di idee, a mezza strada tra filosofia e letteratura.  

“L’argomento del presente saggio -scrive Camus nelle prime pagine- è appunto il rapporto fra l’assurdo e il suicidio, la misura esatta nella quale il suicidio sia una soluzione dell’assurdo. Ci si uccide perché la vita non vale la pena d’essere vissuta: ecco indubbiamente una verità; infeconda, tuttavia, perché troppo evidente. Ma questo insulto all’esistenza, la smentita che le viene vergognosamente data derivano forse dal fatto che essa non abbia un senso? La sua assurdità esige dunque che la si sfugga con la speranza o con il suicidio? Ecco ciò che bisogna mettere in luce, indagare e illustrare, scartando tutto il resto”. Ed ecco il prossimo tema per i giovani filosofi.

Ma che cos’è l’assurdo? “In realtà Camus non ci dà mai una definizione in qualche modo definitiva dell’assurdo” come precisa Corrado Rosso nella prefazione. Che cos’è l’assurdo? Assurdo vuol dire: illogico, contraddittorio, irrazionale. Come l’esistenza umana. La stessa fede religiosa nasce dalla lucida constatazione dell’assurdo: “certum est quia impossibile est: credo quia absurdum” lo ha detto uno dei primi e più grandi pensatori del cristianesimo, Tertulliano. Scrive Camus: «È assurdo vuol dire “è impossibile” ma anche “è contraddittorio”. Se vedessi un uomo attaccare all’arma bianca un gruppo di mitragliatrici giudicherei il suo atto assurdo, ma questo è tale in conseguenza della sproporzione esistente fra le sue intenzioni e la realtà che lo attende, fra le sue vere forze e lo scopo che egli si propone».L’interrogativo intorno al quale sembra girare il ragionamento di Camus è: l’assurdo è, filosoficamente parlando, l’in-sé (o, kantianamente, il noumeno), oppure il risultato di un rapporto, di una relazione asimmetrica tra i nostri tentativi di capire e l’irrazionalità con cui si presentano la vita e l’essere? In questo senso pensare è l’inizio di una crisi: “Cominciare a  pensare e cominciare ad essere minati. La società non c’entra gran che in questi inizi; ma il verme si trova nel cuore dell’uomo, dove appunto bisogna cercarlo. Questo giuoco mortale, che conduce dalla lucidità di fronte all’esistenza all’evasione fuori della luce, deve essere seguito e compreso”. 

Il saggio di Camus si divide in quattro capitoli (Un ragionamento assurdo; l’uomo assurdo; la creazione assurda; il mito di Sisifo e una appendice su Kafka: la speranza e l’assurdo nell’opera di Franz Kafka). Sono tutti argomenti che si potrebbero riprendere come titoli di saggi sull’assurdo. Il capitolo intitolato Kirillov, il personaggio dei Dèmoni di Dostoevskij, inizia così: “tutti gli eroi di Dostoevskij interrogano se stessi sul senso della vita, ed è sotto questo aspetto che sono moderni: essi non temono il ridicolo. Ciò che distingue la sensibilità moderna da quella classica è il nutrirsi questa di problema morali e quella di problemi metafisici. Nei romanzi di Dostoevskij, il problema è posto con tale intensità, da non poter impegnare che a soluzioni estreme”. 

Su questa tesi agiscono i maestri dell’esistenzialismo, Fedor Dostoevskij e Franz Kafka in primis e all’autore de Il Castello e Il Processo Albert Camus dedica il saggio conclusivo (Appendice) del suo Mito di Sisifo: «Samsa, l’eroe della Metamorfosi, è un viaggiatore di commercio; ecco perché la sola cosa che lo irrita nella singolare avventura, che fa di lui un insetto, è che il padrone possa esser malcontento per la sua assenza. Gli spuntano zampe e antenne, la schiena si curva, punti bianchi gli tempestano il ventre, e non dirò che non ne sia stupito -ché l’effetto non sarebbe raggiunto- ma ne prova una “leggera contrarietà”. Tutta l’arte di Kafka sta in questa sfumatura…Se Kafka vuole esprimere l’assurdo, si servirà della coerenza. Si sa la storia del pazzo che pescava in un bagno. Un medico, che aveva idee proprie sui trattamenti psichiatrici e gli chiedeva: “se abboccava all’amo”, si sentì rispondere con severità: “Ma no, imbecille! Se è un bagno.” Questa storiella è di tipo barocco, ma vi si comprende con evidenza come l’effetto assurdo sia legato a un eccesso di logica. Il mondo di Kafka è, a dir il vero, un universo indicibile, in cui l’uomo si permette il torturante lusso di pescare in un bagno, pur sapendo che non ne ricaverà nulla»

La storiella del tizio che pesca nel bagno mi ricorda la battuta finale di Io e Annie di Woody Allen: Alvie Singer, il protagonista interpretato dallo stesso Allen, racconta una divertente storiella: «Sapete? Quella dove uno va da uno psichiatra e dice: “Dottore, mio fratello è pazzo: crede di essere una gallina”. E il dottore gli dice: “Perché non lo interna?” E quello risponde: “e poi a me le uova chi me le fa?” Beh, credo che corrisponda molto a quello che penso io dei rapporti uomo-donna: e cioè che sono assolutamente irrazionali, e pazzi, e assurdi… Ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova». Quello che Alvie Singer pensa dei rapporti uomo-donna (pazzi, irrazionali, assurdi) è esattamente una declinazione dell’assurdo, una versione umoristica di una situazione kafkiana. 

Sisifo può esser felice?

Siamo tutti figli di Sisifo, non di Prometeo. Le nostre esistenze, anche quelle più felici in apparenza, i nostri sforzi, sono così vani -e noi non ce ne rendiamo conto- che un alieno, un essere di un altro pianeta o sistema solare, ci classificherebbe come le creature più assurde dell’universo: immaginate di vedere voi dall’alto un termitaio di milioni di  matti/e che si svegliano ogni mattina, vanno a lavorare, si seccano per lo stress pur sapendo che devono comunque morire e finire in cenere-nulla. La condanna è già segnata sin dall’inizio. Eppure le formiche umane si riproducono. È il trionfo dell’assurdo. È l’assurdo eletto a normalità. Il che è ancora più assurdo. 

Ma, scrive Camus, “Non si scopre l’assurdo senza esser tentati di scrivere un manuale della felicità. La felicità e l’assurdo sono figli della stessa terra e sono inseparabili.  (…) Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore. Che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice”.

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