Dovevo avere circa 20 anni quando ho letto la prima volta i racconti di Edgar Allan Poe (Boston 1809-Baltimora 1849) in un volume che fa parte di quella geniale collana di letteratura (La biblioteca di Babele) pubblicata da Franco Maria Ricci, curata da Jorge Luis Borges. Quel volumetto, pubblicato nel 1979, con il titolo La lettera rubata, concentra alcuni racconti-cult di Poe come Manoscritto trovato in una bottigliaIl pozzo e il pendoloIl misterioso caso di Mr Valdemar (The facts in the case of Mr Valdemar), L’uomo della follaLa lettera rubata, quest’ultimo con protagonista Auguste Dupin, il primo investigatore della letteratura moderna, uno Sherlock Holmes ante litteram. Non rammento più quante volte li ho riletti. In quel libro, dall’insolito formato, in bella carta con caratteri bodoniani, v’era condensato il Poe del mistero, dell’orrore e del disfacimento, dell’angoscia e del vuoto. Non, però, il Poe romantico, che ritroviamo, in particolare, nei tre racconti ispirati da, e dedicati a, tre donne speciali: Berenice, Morella e Ligeia. Morella e Ligeia sono anche protagoniste di due film del ciclo dedicato a Edgar Allan Poe, regia di Roger Corman: Morella fa parte di Tales of Terror (1962), mentre Ligeia rivive sul grande schermo in The tomb of Ligeia (1965).

Lady Ligeia e Beatrice

Il racconto di Ligeia, che sconfigge la morte, “il verme conquistatore”, ed entra nel corpo della sua rivale, è introdotto da una citazione del filosofo inglese Joseph Glanvill (1636-1680): “E la volontà consiste in ciò: che non muore. Chi conosce i misteri della volontà, e il suo vigore? Poiché Iddio non è che un immenso volere che pervade tutte le cose con la natura del suo intendimento. L’uomo non si arrende agli angeli, né completamente alla morte, se non attraverso la fralezza del suo debole volere”.

Ligeia è una parola greca che significa armoniosa, eloquente, canora, melodiosa, dalla voce squillante. Come aggettivo può essere riferito alle Muse. Non so se Edgar Allan Poe conoscesse o avesse letto Dante e la Divina Commedia (presumo di sì), ma ogni volta che rileggo Ligeia, uno dei racconti più poetici, misteriosi e inquietanti dello scrittore di Boston, il mio pensiero corre inevitabilmente alla Beatrice dantesca. Qualcuno si chiederà che cosa mai possono avere in comune due donne immerse in atmosfere, contesti e suggestioni figurative così apparentemente lontane e quasi di segno opposto, l’una, Beatrice, creatura medievale, più celeste che terrena, ce la potremmo raffigurare come una Madonna di Giotto o meglio ancora come la Madonna con Bambino e Angelo di Filippo Lippi, o severa quale Madonna sul trono dipinta dal Ghirlandaio; l’altra, Ligeia, antesignana letteraria delle dark lady, bellissima, ma di una bellezza asessuata, misteriosa, vagamente esoterica, ben accostabile, per rimanere nel campo delle similitudini pittoriche, alle donne ritratte dai preraffaelliti, anch’esse belle e spirituali, malinconiche e altere (penso a Monna Vanna di Dante Gabriele Rossetti). E non a caso i preraffaelliti amavano molto Dante e in particolare la Vita Nova. Sembrerebbe dunque che gli opposti si tocchino, o che gli opposti non siano mai stati veramente opposti, e che dunque le due figure femminili siano l’una il rovescio dell’altra, proprio come le facce di un prezioso medaglione. 

Elizabeth Shepherd nei panni di Lady Rowena e Lady Ligeia nel film di Corman

Beatrice e Ligeia sono infatti accomunate da due aspetti, intimamente legati l’uno all’altro, che le innalzano allo status di donne fuori dall’ordinario, collocandole nella sfera del sovrumano: Ligeia si presenta con una bellezza fisica fuori dal normale, al limite dell’ineffabile, superiore a qualunque canone umano,  una bellezza priva di erotismo, che è l’effetto, l’irradiazione estetica di un’altrettanto sovrumana superiorità spirituale e sapienziale.     

“Mai giovine donna ha uguagliato la bellezza del suo viso. Era la irradiazione di un sogno d’oppio, una visione aerea che sollevava lo spirito, una visione più stranamente celeste dei sogni che volteggiano nelle anime assopite delle fanciulle di Delos”. Con l’appoggio di una dotta citazione di Bacon Lord Verulam, secondo il quale non esiste autentica bellezza se non è accompagnata da “qualche stranezza nelle proporzioni”, Poe aggiunge che la bellezza di Ligeia non era quella che si potrebbe riscontrare nella regolarità classica, nonostante l’ineffabile squisitezza dei suoi lineamenti. A questo punto il narratore esibisce tutta l’abilità della sua arte per donarci un ritratto il più espressivo possibile della sua Ligeia. “Esaminavo il contorno della fronte alta e pallida, ed era perfetto; ma come è fredda questa parola applicata a così divina maestà! Esaminavo la pelle rivaleggiante con l’avorio più puro, la imponente larghezza e la calma, la dolce prominenza delle parti sopra alle tempie, e poi la capigliatura di un nero corvino, lucida, lussureggiante, naturalmente ondulata, che dimostrava tutta la forza della espressione omerica ‘capigliatura iacintea’! Guardavo il profilo delicato del naso, e non trovavo simile perfezione se non nella grazia dei medaglioni fenici…Guardavo la bocca. Ecco veramente il trionfo di tutte le cose celesti: la curva armoniosa del labbro superiore piuttosto breve, il riposo soffice e voluttuoso del labbro inferiore, le fossette che giocavano e il colore che parlava, i denti che rimandavano con una intensa luminosità quasi ogni raggio della luce benedetta che cadeva su di loro”.

Gli occhi di Ligeia: un miracolo di poesia

Questa voluttà descrittiva – segno della vena poetica di Poe che, lungi dall’essere solo quel narratore meticoloso, razionale, fortemente incline alla logica propria di una mente portata all’analisi e alla speculazione, scrive in una prosa che ha spesso l’eleganza, la grazia e la ricercatezza degne di un poeta alessandrino – tocca l’apice della raffinatezza quando ritrae gli occhi di Ligeia: “Per gli occhi non vi sono modelli nella remota antichità…Erano – io devo credere – molto più grandi dei soliti occhi della nostra razza. Erano più pieni dei più begli occhi di gazzella della tribù della vallata di Nurjahad. Ma era soltanto a momenti, quando si animava intensamente, che questa particolarità diventava notevole. In quei momenti la sua bellezza era – o almeno appariva alla mia accesa fantasia – la bellezza di un essere supremo o comunque non terreno, la bellezza della favolosa urì dei turchi. Le pupille erano del nero più brillante, difese da lunghissime ciglia nere. Anche le sopracciglia, di disegno lievemente irregolare, erano nere…L’espressione degli occhi di Ligeia! Quanto mi ha fatto meditare! Quante volte, per un’intera notte d’estate, mi sono sforzato di penetrarne il significato! Che cosa era dunque questo non so che -più profondo del pozzo di Democrito -che giaceva nelle pupille della mia adorata?”

Non sfugga al lettore l’importanza di questo primo piano degli occhi di Ligeia: nelle di lei pupille si concentra l’essenza ineffabile della bellezza e del mistero che aleggia intorno a questa donna. Anche per Dante gli occhi di Beatrice sono la sintesi rapinosa della sua bellezza ultraterrena e agli occhi di Beatrice il poeta attribuisce una valenza illuminante e sapienziale, che si esprimerà pienamente nel Paradiso:

“Già eran li occhi miei rifissi al volto
de la mia donna, e l’animo con essi,
e da ogne oltre intento s’era tolto.
E quella non ridea; ma «S’io ridessi»,
mi cominciò, «tu ti faresti quale
fu Semelè quando di cener fessi:
ché la bellezza mia, che per le scale
de l’etterno palazzo più s’accende,
com’hai veduto, quanto più si sale,
se non temperasse, tanto splende,
che ‘l tuo mortal podere, al suo fulgore,
sarebbe fronda che trono scoscende”. 
(Par. XXI, 1-12)

Sono proprio gli occhi di Beatrice a far innamorare Dante: Beatrice è colei che “apre il vero” nella vita dei miseri mortali, Beatrice è colei che imparadisa  la mente di Dante, gli occhi di lei sono uno specchio nel quale il poeta vede riflesso il vero essere, ma sono anche gli occhi che Amore usò come corda per “pigliare” il poeta:

“Poscia che’ncontro alla vita presente
de’ miseri mortali aperse’l vero
quella ch’mparadisa la mia mente,
come in lo specchio fiamma di doppiero
vede colui che se n’alluma retro,
prima che l’abbia in vista o in pensiero,
e sé rivolge per veder se’l vetro
li dice il vero, e vede ch’el s’accorda
con esso come nota con suo metro;
così la mia memoria si ricorda
ch’io feci riguardando ne’ belli occhi
onde a pigliarmi fece Amor la corda”.
(Par., XXVIII, 1-12)

Beata Beatrix di Dante Gabriel Rossetti

La sapienza di Beatrice è di natura teologica, è una facoltà dell’anima che permette di superare i limiti intellettuali della conoscenza umana. Ma in quanto a sapienza  anche Lady Ligeia non sembra scherzare: “Ho accennato al sapere di Ligeia: era immenso, quale non ho mai trovato in una donna. Conosceva a fondo le lingue classiche e, per quanto vasta fosse la mia conoscenza  delle lingue moderne d’Europa, non ho mai potuto prenderla in fallo…Allora non capivo quello che vedo ora chiaramente, e cioè che le conoscenze di Ligeia erano gigantesche, sbalorditive”.   

Ma, al di là di questi brevi, ma spero significativi raffronti tra le due “gloriose donne della mente”1 di questi due poeti, l’affinità tra Ligeia e Beatrice è riscontrabile anche sotto il profilo della struttura narrativa. Il racconto di Poe sembra ripercorrere, seppure in modo molto particolare e personale, lo schema narrativo della Vita Nova: Ligeia è la donna-angelo di Poe, esattamente come Beatrice lo è di Dante; Ligeia muore misteriosamente, lasciando un vuoto incolmabile nell’anima dello scrittore che tuttavia si risposa con Lady Rowena, bionda e dagli occhi azzurri; ma alla fine anche Lady Rowena cade ammalata e muore; ma – miracolo! – il suo corpo riprende una strana vitalità: si risveglia, e, con sorpresa dello scrittore, non è Lady Rowena, ma Ligeia stessa, con i suoi capelli “più neri dell’ali corvine della mezzanotte” e i suoi occhi, “gli occhi neri, gli occhi selvaggi, gli occhi del mio amore perduto…di lady…di lady Ligeia”.  

Il racconto di Poe ricalca, a grandi linee, lo schema narrativo della Vita Nova di Dante, nel quale, ricordiamolo molto sinteticamente, dopo che la prima donna amata, Beatrice, muore, Dante si consola con una seconda donna, la donna Gentile, ma poi alla fine ritorna a Beatrice che, per quanto allegoricamente, risorge nella mente del poeta con la mirabile visione descritta nel sonetto finale “Oltre la spera che più larga gira”2.


1 “gloriosa donna de la mia mente”. Così Dante definisce Beatrice all’inizio della Vita Nova.
2 Riferimenti bibliografici: Edgar Allan Poe, I racconti dell’incubo, Newton Compton, 2024; Edgar Allan Poe, Opere scelte, a cura di Giorgio Manganelli, Milano, Mondadori, 2006.

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Una risposta a “Edgar Allan Poe, il romanticismo dark e Lady Ligeia ”

  1. […] e invocata dai poeti. Partenope, Leucosia e Ligea, nomi parlanti, in particolare quello di Ligea o Ligeia che significa “melodiosa”. Non bisogna per forza supporre, a dispetto di una delle tradizioni […]

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