Con il mito delle Sirene e della loro voce ammaliante, si consolida, in termini simbolici, l’idea che la musica e il canto possano avvincere con la loro fatale seduzione estetica anche gli esseri umani più forti ed eroici come Ulisse, cui la maga Circe (libro XII dell’Odissea) dà istruzioni infallibili affinché lui e i suoi compagni di viaggio non vadano ad arricchire il bianco mucchietto di ossa che circonda le bellissime e micidiali ninfe canore; non a caso, le Sirene (Partenope, Leucosia e Ligea) sono figlie del fiume Acheloo e di Calliope, una delle nove muse, e delle nove la più celebre e invocata dai poeti. Partenope, Leucosia e Ligea, nomi parlanti, in particolare quello di Ligea o Ligeia che significa “melodiosa”. Non bisogna per forza supporre, a dispetto di una delle tradizioni mitiche, che le Sirene fossero anche antropofaghe: Omero racconta -per voce di Circe- che la riva e gli scogli pullulano di “scheletri umani marcenti; sull’ossa le carni si disfano”; i malcapitati che si abbandonano all’ascolto del canto stregante finiscono per non avere più fame lasciandosi, così, morire di inedia.
Ma, prima ancora d’esser vinte dagli stratagemmi di Ulisse (che, legati i compagni ai remi, impedì – applicandosi dei tappi di cera alle orecchie – alle voci maliose delle Sirene di insinuarsi e dilagare nella sua mente tramite il condotto uditivo), le tre “femminote” (termine che mutuo da Stefano D’Arrigo, l’autore dell’Horcynus Orca) dovettero cedere alla superiorità musicale di Orfeo, che con la sua lira surclassò le Sirene e la loro voce salvando gli Argonauti: il famoso cantore della Tracia, figlio anche lui di Calliope o – secondo un’altra tradizione – di Apollo e Clio, era così bravo che al sonar della sua cetra si fermavano le correnti dei fiumi e persino le belve dimenticavano la loro naturale ferocia: “Anche le dimore di Lete/si stupiron e i recessi del Tartaro/e le Furie che intrecciano sui crini/i cerulei serpenti; tacque Cerbero/spalancando le tre gole, e col vento/si fermò la ruota di Issïone”. Così scrive Virgilio nelle Georgiche (libro IV) rievocando il mito di Orfeo ed Euridice. Orfeo è simbolo della superiorità della musica sulle forze telluriche e barbariche della natura, incarna il potere civilizzatore dell’arte che commuove persino il tetro mondo sotterraneo. Devo riprendere la narrazione di Virgilio nella quarta Georgica perché nei versi che cito adesso troveremo il canto dell’usignolo, tema che riprenderò più avanti. Ecco come Virgilio narra la fine di Orfeo:
“Si narra che per sette interi mesi
senza sosta egli pianse sotto un’alta
rupe presso le acque del deserto
Strimone e ripeté queste sventure
in freddi antri, le tigri addolcendo
e trascinando col canto le querce;
come all’ombra di un pioppo un usignolo
si duole pei pulcini che spietato
il contadino rubò ancora implumi
dal nido; piange di notte e seduto
sul ramo ripete quel cupo tema
ch’empie per lungo tratto i luoghi intorno.
Né imenei né piaceri lo tentaron,
da solo gli iperborei ghiacciai,
e il Tanai nevoso e le campagne
rifee mai private della neve
percorreva, la rapita Euridice
invocando e i vani doni di Ade.
Trascurate da tale devozione
le madri dei Ciconi nelle orge
sacre degli dei e del notturno Bacco,
trucidarono il giovane spargendone
le membra per i vasti campi. Allora
anche quando la sua testa, recisa
dal candido collo, l’Eagrio Ebro
nel pieno della corrente portava,
‘Euridice, ah infelice Euridice
egli invocava con voce ormai esanime,
‘Euridice’ ripetevan le sponde
per tutto il fiume”. Questo narrò Proteo (.)”
Le sirene da un lato, Orfeo sulla sponda opposta del controvalore positivo, apollineo, della musica. Le prime ne rappresentano il volto ambiguo, seduttivo e oblioso, il potere disviante e irrazionale della melodia e dell’estetica che può distogliere i marinai (e in senso lato, le classi lavoratrici, giusta la celebre rilettura di Max Horkheimer e Theodor W. Adorno ne La dialettica dell’Illuminismo) dal loro pratico destino; dall’altro, Orfeo, che raffigura l’aspetto razionale e salvifico della musica (e in senso esteso dell’arte), l’Orfeo Musagète contrasta con la sirena che “dismaga” (come scrive Dante nel Purgatorio XIX) i marinai in mezzo al mare e volse “Ulisse del suo cammin vago”.
Nell’iconografia classica (per esempio le pitture vascolari dei greci antichi) le Sirene sono rappresentate come creature biformi, metà donne e metà uccelli, non di rado dotate di artigli. È un’immagine molto simile a quella delle Arpie, così ben descritte prima da Virgilio nell’Eneide (libro III) poi da Dante nell’Inferno, dove sono poste a guardia e tortura dei dannati nel secondo girone del settimo cerchio (i suicidi). Solo nel Medioevo si diffonderà la raffigurazione ancora oggi prevalente nell’immaginario popolare, quella che vede le Sirene come esseri femminili con la parte inferiore del corpo a forma di pesce. Ma la storia delle Sirene è un po’ più complicata: secondo una tradizione narrata da Igino, il più famoso mitografo di età augustea, le Sirene erano dotte fanciulle compagne di Persefone: siccome non riuscirono a soccorrerla quando fu rapita da Ade, Demetra le trasformò in uccelli. Secondo Ovidio (Metamorfosi) furono loro stesse che chiesero agli dei d’esser trasformate in creature alate per la disperazione di non aver trovato Persefone. Ma ecco cosa scrive Igino: “le Sirene, figlie del fiume Acheloo e della musa Melpomene, mentre andavano errando dopo il rapimento di Proserpina, giunsero alla terra di Apollo, e lì per volontà di Cerere furono trasformate in uccelli perché non avevano prestato soccorso a Proserpina. A loro fu preannunciato che sarebbero vissute sinché un viandante fosse passato senza fermarsi al loro canto: e l’uomo fatale fu Ulisse; infatti, egli riuscì a doppiare con la sua nave le rocce in cui dimoravano, cosicché esse si precipitarono in mare. Da loro quel luogo si chiamò Sirenide e sta tra la Sicilia e l’Italia” (I Miti, Adelphi, 2000, a cura di Guido Guidorizzi). Tradizionalmente si tende a identificare le isole delle Sirene nei tre scogli del Golfo di Napoli, oggi chiamati Li Galli, nei pressi di punta della Campanella; in loro onore sorgeva un tempio tra capo Massa e Capo Miseno.
Casella e il canto come solacium animi
Questo contrasto simbolico tra due polarità opposte della musica rappresentate nel mito classico dalle Sirene e da Orfeo, si ripropone, ovviamente ricontestualizzato, nella Divina Commedia e in particolare all’inizio del Purgatorio. Dante non era musicista nel senso professionale del termine. Conosceva, però, la musica (e forse la praticava a livello strumentale), e i suoi rapporti tutt’altro che sporadici e superficiali con il mondo dei musicisti è testimoniato, solo per limitarci all’esempio più famoso, dall’episodio di Casella, nel secondo canto del Purgatorio. L’incontro con il musicista, e amico fiorentino, dà origine a uno dei momenti più belli e liricamente toccanti del poema. Dante chiede all’amico di cantargli Amor che ne la mente mi ragiona, il primo verso della seconda canzone dantesca del Convivio, commentata nel trattato terzo:
“E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie voglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la mia persona
venendo qui, è affannata tanto!»
‘Amor che ne la mente mi ragiona’
cominciò elli allor sì dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi sona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch’eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravam tutti fissi e attenti
alle sue note; ed ecco il veglio onesto
gridando: «Che è ciò, spiriti lenti?
qual negligenza, quale stare è questo?
Correte al monte a spogliarvi lo scoglio
ch’esser non lascia a voi Dio manifesto». (Purg., II, 106-123)
Dante e gli altri spiriti ascoltano rapiti la melodia di Casella: il brusco intervento di Catone (“veglio onesto”) rompe l’incanto della musica, riportando Dante alla realtà, al faticoso cammino da proseguire su per i balzi della sacra Montagna. Quella di Casella, come nota Fabrizio Galvagni, deve essere musica ‘che prende’, la musica giusta, ma proprio per questo non adatta all’impegno, al sacrificio, alla ricerca della perfezione. Come ricorda Vittorio Sermonti, in Purgatorio non si va con il walkman: “al purgatorio i penitenti arrivano cantando in coro il salmo dell’esodo nell’eternità del futuro, e cento altri cori canteranno su per la montagna, finché non saranno assunti nel coro dei santi -così racconta la favola della fede -e loro stessi saranno musica delle stelle”.
Quindi, come sembrerebbe suggerire il brusco rappel à l’ordre di Catone, nel Purgatorio la musica non può essere escapismo, sogno, fantasticheria. La musica è sempre legata al canto e al testo biblico, per richiamare con dolcezza e trasporto il dovere in senso etico e spirituale. È lo stesso tema che svilupperà Thomas Mann nel La montagna incantata, in particolare nel dialogo tra Hans Castorp, il protagonista del romanzo, e l’italiano Settembrini: il primo, rivendicando alla musica finalità e valori puramente estetici e contemplativi, la considera balsamo e sollievo dell’anima, veicolo di evasione dalla realtà; Settembrini sostiene, al contrario, il pericolo insito nella musica che non sia finalizzata all’impegno, al progresso, all’attività (“Io nutro un’avversione politica contro la musica”). Il parallelo Dante-Hans Castorp e Catone-Settembrini conferma l’attualità della Divina Commedia e l’importanza della musica nel Purgatorio, come precisa lo stesso Dante:
“Noi volgendo ivi le nostre persone,
‘Beati pauperes spiritu!’ voci
cantaron sì, che nol dirìa sermone.
Ahi quanto son diverse quelle foci
dall’infernali! chè quivi per canti
s’entra, e là giù per lamenti feroci”. (Purg., XII, 109-114)
“Lamenti feroci” e “canti”, le due cifre acustico-musicali che contrassegnano le prime due cantiche. La Divina Commedia racchiude tutta la gamma sonora, dal rumore alla musica delle sfere celesti, la kosmische Musik, per usare un’espressione che definisce il genere dei Tangerine Dream, autori di una trilogia dedicata al divino poema. Nel Paradiso la musica si spoglia delle sue connotazioni terrene, risolvendosi in termini più astratti e trascendentali nell’armonia delle sfere celesti, come Dante ricorda in Paradiso:
“Quando la rota che tu (scil. Dio) sempiterni
desiderato, a sé mi fece atteso
con l’armonia che temperi e discerni,
parvemi tanto allor del cielo acceso
della fiamma del sol, che pioggia o fiume
lago non fece mai tanto disteso”. (Par., I, 76-81)
L’amore di Dio che presiede i cieli (amor che’l ciel governi) è come se regolasse (“temperi”) la diversa intensità dei suoni opportunamente distinti (“discerni”) di sfera in sfera, in una sorta di luminosissima sinfonia dei cieli, difficilmente trascrivibile in parole (“la novità del suono e’l grande lume”), come altrettanto complesso, per non dire impossibile, esprimere verbalmente il passaggio a una condizione fisico/spirituale superiore a quella umana (“trasumanar significar per verba/non si porìa”). Anche in Dante ritorna l’eco del racconto di Orfeo: innanzitutto il cantore di Tracia è citato fra gli spiriti magni del Limbo, insieme a un altro mitico poeta e musico greco, Lino. In Purgatorio, poco prima che Virgilio e Dante facciano ingresso sul primo ripiano del Sacro Monte, l’Angelo portiere, dopo aver inciso le sette P sulla fronte di Dante, lo avvisa di non volgersi indietro, stesso ammonimento che Orfeo aveva ricevuto (e disatteso) nel discendere l’Ade per riprendersi Euridice. Ecco cosa dice l’Angelo alle porte del Purgatorio:
“Poi pinse l’uscio alla porta sacrata,
dicendo: «Intrate; ma facciovi accorti
che di fuor torna chi ‘n dietro si guata».
E quando fuor ne’ cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpea, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e Te Domine laudamus mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch’io udiva, qual prendere si sole
quando a cantar con organi si stea;
ch’or sì, or non s’intendon le parole”. (Purg. IX, 130-145)
È incredibile vedere come il mito classico ritorni-risorga-si moltiplichi fecondamente nella letteratura successiva. Tra le “dolci note” del Te lucis ante (un inno che si recita a compieta) e il Te Domine Laudamus, Dante ricorda l’ora “che comincia i tristi lai/la rondinella presso alla mattina,/forse a memoria de’ suo’ primi guai” (Purg. IX 13-15). Dante allude alla trasformazione di Progne da donna in rondine, narrata da Ovidio, nel libro VI delle Metamorfosi, e da Igino (I miti, XLV). Progne, la cui sorella Filomela aveva subito violenza dal cognato Tereo, si era vendicata dello stupro facendo a pezzi il figlioletto Iti e servendone le carni al consorte stupratore. Tereo impazzì e mentre inseguiva le due donne per punirle, Progne si trasformò in rondine, Filomela in usignolo e Tereo in upupa. Il mito greco associa, quindi, al più melodioso degli uccelli una storia che definire cupa è un blando eufemismo. Dante (Purg. XVII, 19-21) crede che sia Progne l’usignolo: “Dell’empiezza di lei che mutò forma/nell’uccel ch’a cantar più si diletta,/nell’imagine mia apparve l’orma”. È una delle tre visioni di ira mala che Dante descrive salendo dal terzo al quarto ripiano del Purgatorio, cioè dall’ira all’accidia.
Dante demitizza la Sirena, rivelandone l’intima sozzura, nel sogno della “femmina balba”, una donna “nelli occhi guercia, e sovra i piè distorta/con le man monche, e di colore scialba” (Purg. XIX, 8-9). Nel sogno, Dante guarda la donna che riacquista subito scioltezza nel parlare e bellezza nell’aspetto, e si mette a cantare “sì, che con pena/da lei avrei mio intento rivolto”. La donna dichiara, cantando, di essere quella Sirena che turba, disvia i marinai dal loro viaggio e volse Ulisse “del suo cammin vago”. Qui forse Dante confonde le Sirene con la maga Circe, dimenticandosi che Ulisse vinse il loro canto. Sta di fatto che il sogno si conclude con l’intervento di un’altra misteriosa donna “santa, presta e onesta”, che strappa le vesti della Sirena mostrando a Dante il ventre: il poeta si sveglia per il “puzzo che n’uscìa”. Un’altra sciarada simbolica della Divina Commedia, perché nel sogno descritto la donna balbuziente (“femmina balba”) diventa Sirena ammaliante grazie allo sguardo di Dante: il quale vuole forse dirci che l’amore eccessivo dei beni terreni e dei piaceri ci fa dimenticare la loro ingannevole natura.
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