Jeremias Gotthelf è, con Gottfried Keller, il più grande scrittore svizzero dell’Ottocento. Nato nel 1797 nel piccolo villaggio di Murten, Friburgo, dove il padre era parroco protestante, trascorre l’infanzia e l’adolescenza immerso nella vita di campagna. Il suo vero nome era Albert Bitzius. Dopo aver frequentato i corsi di teologia, nel 1820 viene nominato vicario di suo padre; e nel 1831 è trasferito a Lützelflüh, piccolo centro dell’Emmental, nel Bernese, di cui diventerà pastore l’anno successivo e da dove non si muoverà più per il resto dei suoi giorni. Inizia l’attività letteraria piuttosto tardi, verso il 1836, e assume fin dal primo romanzo lo pseudonimo con il quale lo conosciamo, che significa Geremia Dio ti aiuti. Sembra che fosse un predicatore formidabile. Nella voce dell’Enciclopedia italiana del 1933 a lui dedicata, il germanista Giuseppe Gabetti lo descrive con queste parole, forse datate ma significative: “Ebbe così tutta l’esistenza mescolata a quella del popolo, di cui non fu soltanto il pio pastore d’anime, ma il vero compagno di vita nell’esistenza d’ogni giorno. Egli era bensì la guida dei suoi contadini per la sua maturità mentale e per la missione spirituale di cui si sentiva investito, ma appunto perciò ancor più legato al loro operare e soffrire. Gli accadde così che, a quarant’anni, incominciando a scrivere per ammaestrare ed educare […], la spontanea gioia di dar nuova realtà nella parola a quelle figure di uomini che gli erano familiari finì spesso col travolgere ogni preoccupazione moralistica, facendo nascere dal predicatore il poeta”1.
Ritroviamo il vigore delle immagini e la preoccupazione pedagogica, propri dei suoi romanzi e delle sue novelle, in quello che molti considerano il suo capolavoro, Il ragno nero, scritto nel 1841. Elias Canetti ebbe a dire ne La lingua salvata. Storia di una giovinezza: “Lessi Il ragno nero e me ne sentii perseguitato, era come se fosse penetrato nel mio proprio viso”2. E Gottfried Keller e Thomas Mann hanno sottolineato, primi tra tanti, il respiro epico della scrittura di Gotthelf, che paradossalmente si esprime meglio nei racconti.
Il ragno nero si apre in una domenica di festa: è giorno di battesimi. Nella vallata di Sumiswald, non distante dal borgo di Lützelflüh di cui Gotthelf fu pastore per tanti anni, è primavera, e la natura si mostra in tutto il suo splendore. Di ritorno dalla chiesa del paese, i padrini, la madrina e gli altri ospiti trovano ad attenderli un ricco banchetto, che la famiglia di uno dei bambini battezzati ha preparato secondo tutti i canoni della tradizione. Regna un’atmosfera di grande allegria. Durante una pausa tra le diverse portate, la piccola compagnia fa una passeggiata nelle vicinanze risalendo il pendio della valle, e può così ammirare la casa avita dall’alto. Ai complimenti per le migliorie apportate di recente si accompagna un’osservazione della madrina: una sezione di trave nera, che avrebbe potuto essere sostituita, sembra stonare singolarmente con il resto dell’edificio. Il nonno del bambino battezzato, dopo un’esitazione iniziale, si decide a rivelare il segreto di quella trave. Termina qui la “cornice” del racconto, e comincia la storia del ragno nero.
Occorre risalire a molti secoli addietro, esordisce il nonno, per conoscere le origini di questi fatti. A quando, in epoca medievale, la comunità di contadini della vallata era oppressa da un castellano malvagio e dai cavalieri teutonici suoi sgherri. Le famiglie del luogo, completata la costruzione di una nuova dimora per il signore, debbono occuparsi dei campi in una stagione nella quale è richiesto alla comunità il massimo sforzo per un raccolto che permetta di affrontare l’inverno; ma il castellano, per un capriccio, convoca i capifamiglia e impone un ulteriore, gravosissimo compito: un viale alberato di cento faggi, da sradicare dal fondovalle e piantare entro un mese di tempo nei pressi della nuova residenza. Non distante dal castello, nell’oscurità della notte sopravvenuta, si presenta ai contadini affranti uno strano cavaliere vestito di verde, con la barba rossa e una piuma rossa sul berretto. Li interroga sui loro guai e si offre di aiutarli; ma quando come ricompensa chiede un bambino non ancora battezzato, gli uomini capiscono che è il diavolo a tentarli e si disperdono terrorizzati per la campagna. Presto l’intera comunità apprende quale odioso accordo abbia offerto il Maligno, che ai capifamiglia in fuga ha dato tre giorni per decidere.
Disperati, nei giorni successivi i contadini tentano di soddisfare la richiesta del castellano, prelevando i primi faggi e tentandone il trasporto; ma ben presto si rendono conto che l’impegno necessario per uomini e armenti li condurrebbe alla rovina. Ed ecco, allo scadere del terzo giorno, appare il cavaliere verde a un gruppo di lavoranti. È presente tra i contadini anche la moglie di uno dei capifamiglia, Cristina, una donna di fuori, originaria di Lindau, superba e arrogante. Lei non scappa come gli altri. Accetta di dialogare con il diavolo. Dal momento che nessuna donna della valle sta per partorire, pensa che sia opportuno accettare l’aiuto offerto. Una soluzione per non concedere al diavolo un’anima innocente si potrà ben trovare. Certo vorrebbe coinvolgere l’intera comunità nella sua scelta; ma il diavolo preme per una risposta immediata; e suggella il patto con un bacio sulla guancia di Cristina, che sente una fiamma terribile invaderle le membra. La comunità è messa al corrente di quanto successo, e, tra incertezza e colpevole ignavia, avalla il patto.
Forze sovrannaturali, agendo di notte, portano a compimento nel giro di poco tempo quanto il lavoro dei contadini avrebbe potuto realizzare soltanto al prezzo della rovina di un’intera comunità. Ma la comunità ha scelto ugualmente la rovina, soltanto non quella materiale, ma quella spirituale. Se infatti, di lì a qualche tempo, il primo nato può essere salvato dal Maligno facendolo battezzare immediatamente da un sacerdote, lo stratagemma non potrà essere ripetuto impunemente: la guancia di Cristina vede crescere giorno dopo giorno una macchia, che si fa dolorosa escrescenza, che si fa corpo centrale e orribili filamenti pelosi… Presto la vallata è devastata da un diabolico flagello, che non risparmia né uomini né animali, e che non avrà termine finché una mano pia non avrà l’ardire, sacrificando la sua stessa vita, di afferrare il Male e di costringerlo in una trappola di legno appositamente preparata.
Una religiosità cupa e sofferta, un’evidente volontà di ammaestrare l’uditorio. L’esigenza di difendere una società contadina patriarcale dai guasti del mondo moderno, da tutto ciò che, esterno ad essa, possa costituire una minaccia. Queste, sia pure con brutale semplificazione, sembrano le caratteristiche ideologiche del racconto. Non dovrebbe Il ragno nero suscitare in noi lettori moderni un sorriso bonario, frutto della consapevolezza di una distanza incolmabile tra la nostra sensibilità e quella dell’autore? Eppure, non è così. La novella di Gotthelf è ancora in grado di turbarci. La prima ragione è di ordine stilistico: chiama in causa la potenza delle immagini, la fantasia impetuosa che riluce soprattutto nelle descrizioni degli eventi naturali o degli effetti del flagello sulla popolazione della vallata. La seconda ragione, forse ancora più importante, è che pur nella sua visione pre-moderna il testo di Gotthelf anticipa temi modernissimi, quali l’emergere dell’inconscio e il contagioso dilagare del male in un’intera comunità.
Note
Il volume utilizzato per scrivere questo articolo è il seguente: Jeremias Gotthelf, Il ragno nero, Adelphi, 1996, traduzione di Massimo Mila.
1 Gotthelf, Jeremias – Enciclopedia – Treccani
2 Elias Canetti, La lingua salvata. Storia di una giovinezza, Adelphi, 1980, traduzione di Amina Pandolfi e Renata Colorni
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