Borges, il grande scrittore e poeta argentino, non era, per sua stessa ammissione, un profondo conoscitore della letteratura italiana, ma due furono le opere che lo incantarono accompagnandolo per tutta la sua vita di lettore: la Divina Commedia e l’Orlando Furioso. “Non conosco altro italiano che quello che mi ha insegnato Dante e quello che mi ha insegnato Ariosto quando, più tardi, ho letto l’Orlando Furioso”. La riflessione sul poema dantesco apre questa serie di sette conferenze che Borges tenne per sette sere nel 1977, onde offrire al pubblico un compendio delle sue (vaste) letture. Apparse sul quotidiano La Opinión, poi in volume nel 1980, danno un’idea non solo dei principali fra i numerosi e diversificati interessi culturali e letterari di Borges (si parte da Dante e si arriva -passando per Le Mille e una Notte, il Buddhismo e la Poesia- alla Cabbala), ma anche dell’approccio divulgativo dello scrittore argentino che, nel parlare di temi anche molto complessi, mescola l’autobiografia e il commento erudito.

A proposito di Dante, racconta quando esattamente cominciò a leggere la Divina Commedia: “Tutto ebbe inizio poco prima della dittatura (quella del colonnello Juan Domingo Perón, nel gennaio 1946, ndr). Ero impiegato in una biblioteca del Barrio Almagro. Abitavo in calle Las Heras, angolo Pueyrredón, dovevo percorrere su lenti e solitari tram il lungo tragitto che da nord va fino ad Almagro Sud, a una biblioteca in avenida La Plata all’altezza di calle Carlos Calvo. Il caso (ma non esiste il caso, ciò che chiamiamo caso è la nostra ignoranza del complesso meccanismo della causalità) mi fece imbattere in tre volumetti nella libreria Mitchell’s, oggi scomparsa, e che mi evoca tanti ricordi. Quei tre volumi (avrei dovuto portarne uno come talismano oggi) erano l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, tradotti in inglese da Carlyle, ma non Thomas Carlyle (…) prima leggevo un brano, una terzina, in prosa inglese; poi leggevo lo stesso brano, la stessa terzina, in italiano. Quindi leggevo l’intero canto in inglese, e poi in italiano”.

Pur nell’andamento informale, familiare e libero della chiacchierata colta (con brevi e non di rado sorprendenti digressioni e collegamenti), Borges evidenzia non pochi aspetti rilevanti anche per gli specialisti del poema dantesco: l’uso della prima persona singolare, l’intonazione e la musicalità del verso, la ricchezza e l’originalità delle immagini, soffermandosi su alcuni personaggi iconici, oggi si direbbe, del poema, come Francesca (immaginando dietro il silenzio finale di Dante, che cadde “come corpo morto cade”, il tormento dell’amante respinto da Beatrice), il rapporto filiale e di amicizia tra Dante e Virgilio, e il “folle volo” (cioè il superamento delle Colonne d’Ercole e l’ultima esplorazione nautica nell’Atlantico) di Ulisse nel quale Borges vede una replica nell’avventura del capitano Ahab in Moby Dick. 

Anche se si definisce un lettore “edonista” o “ingenuo”, il suo approccio a Dante è tutt’altro che superficiale visto che, venticinque anni prima di queste conferenze si era dedicato a uno studio appassionato e approfondito della Divina Commedia, che aveva prodotto almeno sei articoli usciti tra il 1948 e il 1951 e oggi pubblicati da Adelphi (Nove saggi danteschi).

Dicevo prima che una delle caratteristiche di queste brevi ma succose conferenze è la tendenza di Borges ad aprire brevi parentesi facendo collegamenti anche inattesi (e a volte opinabili). Per esempio, quando parla della musicalità del verso dantesco, dell’intonazione e dell’accento, Borges aggiunge che “ogni frase deve essere letta e viene letta ad alta voce. Dico viene letta ad alta voce perché quando leggiamo versi davvero straordinari, davvero belli, tendiamo a farlo ad alta voce. Un bel verso non si lascia leggere a bassa voce o in silenzio. Se possiamo farlo, non è un verso riuscito: il verso esige di essere declamato. Il verso non dimentica di essere stato un’arte orale prima di essere un’arte scritta, non dimentica di essere stato un canto”. 

Libri classici e libri sacri

La Divina Commedia è un classico. E che cos’è un classico? Borges dà una definizione curiosa, partendo dal significato etimologico. Classico “Deriva dal latino classis, fregata, squadra. Un libro classico è un’opera ordinata, come a bordo dev’essere ogni cosa; shipshape come dicono gli inglesi. Al di là di questo significato relativamente modesto, un libro classico è un’opera illustre nel suo genere. Perciò diciamo che il Don Chisciotte, la Commedia, il Faust sono libri classici”. Questa definizione serve a Borges per introdurre la sua conferenza sulla Cabbala: “Le diverse e a volte contraddittorie dottrine che vanno sotto il nome di Cabbala  si basano su un concetto del tutto alieno al nostro pensiero occidentale, quello di libro sacro. Si dirà che possediamo un concetto simile, quello di libro classico. Credo che mi sarà facile dimostrare, con l’aiuto di Oswald Spengler e del suo Der Untergang des AbendlandesIl tramonto dell’Occidente, che sono concetti diversi”. Insieme alla conferenza su Le Mille e una notte, questa sulla Cabbala è una delle più affascinanti, perché fra l’altro parla anche del Golem e si diffonde poi sulla parentela tra il pensiero dei Cabbalisti e gli gnostici. 

“Gli gnostici, di molti secoli precedenti ai cabbalisti, avevano un sistema simile, che postula un Dio indeterminato. Da questo Dio, che si chiama Pleroma (Pienezza), emana un altro Dio (sto seguendo la versione perversa di Ireneo), e da questo Dio emana un’altra emanazione, e da questa un’altra, e da questa ancora un’altra e ognuna di esse costituisce un cielo (abbiamo una torre di emanazioni). E si arriva così al numero di trecentosessantacinque, perché vi è mescolata l’astrologia. Nell’ultima emanazione, nella quale la parte di divinità tende a zero, troviamo il dio che si chiama Jahvè e che crea questo mondo. Perché lo crea così pieno di errori, così pieno di orrore, così pieno di peccati, di dolore fisico, di sentimento di colpa, di delitti? Perché la Divinità è andata riducendosi, e quando arriva a Jahvè crea questo mondo imperfetto. È lo stesso meccanismo delle dieci sefirot e della creazione dei quattro mondi. Le dieci emanazioni, man mano che si allontanano dall’En Sof, dall’illimitato, dall’occulto, dagli «occulti» (come i cabalisti lo chiamano nel loro linguaggio figurato) vanno perdendo forza, finché si arriva a quella che crea questo mondo, dove siamo noi, così pieni di errori, così esposti all’infelicità, così effimeri nella felicità”.

Anche le conferenze su Buddha e Le mille e una notte rientrano in quello che possiamo definire il fascino dell’Oriente: “Uno degli eventi capitali nella storia delle nazioni occidentali è la scoperta dell’Oriente. Sarebbe più preciso parlare di una coscienza dell’Oriente, continua, paragonabile alla presenza della Persia nella storia greca”. Così scrive Borges all’inizio della sua conferenza su Le mille e una notte, un libro che Borges dichiara subito di avere amato sin dall’infanzia, quando lo lesse nella versione inglese intitolata The Arabian Nights. La fascinazione per l’Oriente è anche una seduzione letteraria e culturale, che nasce per esempio con Erodoto, passa per Plinio il Vecchio per arrivare -e sto volutamente saltando per esigenze di spazio Avicenna e Averroè “che’l gran comento feo”- al Milione di Marco Polo. Ma lascio al lettore il piacere di proseguire leggendo Borges.

Ritratto del sultano Shahriyar e della principessa Shahrazàd 

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Una risposta a “Quando Borges riempiva le sale a Buenos Aires ”

  1. È un articolo, ma anche un saggio breve su Borges. È affascinante. Da rileggere, da meditare. Per gli amanti di Borges è così interessante…

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