C’è un passo che bisogna rileggere dell’Odissea per capire quella che secondo me è la lucida pazzia di Ulisse. Rivediamo alcuni versi del libro V, l’antro di Calipso. Ulisse si prepara a lasciare dopo sette anni l’isola di quella bellissima ninfa. Ecco le parole di Calipso: “Stirpe di Zeus, Laerzìade, Odìsseo che hai mille risorse,/ecco che nella tua casa, alla cara terra dei padri,/subito, adesso, tu vuoi tornartene. Dunque sii lieto!/Se tuttavia lo sapessi in cuor tuo quali pene è destino/per te subire, finché toccherai la terra dei padri,/qui rimarresti con me, guarderesti questa dimora,/e diverresti immortale, per quanto tu brami vedere/quella tua sposa che sempre desideri giorno per giorno./ E tuttavia è mio vanto non esserle in nulla inferiore,/non di statura o bellezza, fra spose mortali e immortali” (Od. V 203-213).
E Ulisse risponde, dopo averle detto che in effetti la moglie “ricca di senno/è meno bella a vedersi, di aspetto e statura, al confronto:/lei è mortale, tu invece immortale e senza vecchiaia”; prosegue: “E tuttavia io lo voglio, desidero giorno per giorno/di ritornarmene in patria e vedere la luce al ritorno/Se qualche dio mi tormenti sul mare colore del vino,/sopporterò, da che in petto ho un cuore che tollera i mali;/già, poiché io molto e molto ho patito e ho molto sofferto,/tanto tra i flutti che in guerra; a seguire venga anche questo!” (ibidem, 215-224). I brani citati sono tradotti da Daniele Ventre, dall’Odissea pubblicata da Ponte alla Grazie-Salani nel 2023.
Il “polymèchan’Odyssèu”, Odisseo ricco di risorse, è anche “polùmetis Odysseus”, Odisseo ricco d’ingegno, due aggettivi chiave, epiteti ricorrenti per definire il carattere del personaggio che “molto/peregrinò, rovesciata la sacra fortezza di Troia;/di molti uomini vide le città, ne conobbe la mente,/molti dolori sul mare patì dentro l’animo suo,/mentre cercava a sé vita e ritorno per i compagni./“. A “polymèchan” e “polùmetis” (di molto senno, molto scaltro) si aggiunge un terzo aggettivo pregnante: Ulisse è eroe “polỳtropos” (multiforme, pieno di accorgimenti), protagonista di quello che possiamo considerare l’archetipo del romanzo moderno. Ed è proprio per mandare avanti la macchina narrativa, il film insomma, che Ulisse-personaggio rinuncia alle promesse di Calipso, decide di rituffarsi nella storia, preferendo la morte della vita all’eternità dell’amore e della quiete. Come sarebbe proseguito il romanzo se Ulisse avesse scelto di restare nell’isola? Provai a immaginarlo io in un poemetto che scrissi, intitolato “Monologo di Ulisse”. Io sarei rimasto con Calipso, immortale, sempre giovane, pensate che bello: far l’amore tutti i giorni con una bellissima ninfa. Al limite sarei rimasto anche con Circe. Al diavolo il mare, i flutti belluini, le tempeste, i compagni che ti muoiono intorno e tu non puoi fare niente (esattamente come oggi), la solitudine, le inutili preghiere ad Atena, la patria agognata che poi la ritrovi insidiata da un branco di bastardi che ti hanno spodestato approfittando della tua assenza e vogliono pure tua moglie. Ma come si fa a preferire la storia alla serena immortalità degli dei? Bisogna essere pazzi. Pazzo Ulisse come dissennato fu il primo uomo a farsi tentare perdendo così il Paradiso.
Ulisse, la finta pazzia e Palamede
Ulisse sapeva davvero fingersi pazzo. Vi ricordate di Palamede? Io ripresi a studiarlo dopo aver visto uno spettacolo di Alessandro Baricco. Palamede è uno dei personaggi più affascinanti, ma fra i meno noti. Non si studia la sua figura perché, forse, la sua grandezza farebbe ombra a quella di Ulisse. Persino L’apologia di Palamede di Gorgia, il grande retore di Lentini, non viene mai citata nelle antologie dove troverete solo l’Encomio di Elena. Su Palamede già Omero aveva steso una colpevole coltre di silenzio, per esaltare meglio la figura del “politropo” Ulisse; che si era finto pazzo per non andare alla guerra di Troia. Escamotage modernissimo. Ancora oggi se avessimo il coraggio di fingerci pazzi subito, appena nati, ci salveremmo da questo manicomio che è la vita. Ulisse si era messo ad arare la battigia della spiaggia di Itaca. Ma Palamede, giunto colà per convincerlo ad arruolarsi, capì che quel tizio non era pazzo; afferrò Telemaco, il figlioletto di Ulisse, e lo piazzò davanti all’aratro. Ulisse partì. Ma da allora giurò a Palamede vendetta. E così alla prima occasione fabbricò la falsa prova della lettera. E i Danai ci credettero. E lo lapidarono. “O Danai avete ucciso l’usignolo dei Greci, che non fece male a nessuno” recita l’unico verso rimasto di una tragedia (perduta) di Euripide, intitolata Palamede.
Alessandro Baricco ha dedicato una pièce teatrale proprio a Palamede (interpretato da una splendida Valeria Solarino), il figlio di Nauplio, lapidato dai suoi compagni Danai perché ritenuto a torto traditore: in realtà, Ulisse produsse una “fake news” (con la compiacenza di un prigioniero Troiano) per far credere che Palamede avrebbe firmato un accordo con Priamo per diventare una spia dei Troiani. Palamede era bello, coltissimo, grande inventore (la leggenda gli attribuisce, fra l’altro, le invenzioni della scrittura, dei pesi e delle misure, di giochi d’intelligenza come gli scacchi), guerriero onesto e coraggioso; un alter ego di Ulisse. Palamede e Ulisse rappresentano forse (e Baricco lo ha spiegato egregiamente) due concezioni diverse, per non dire antitetiche, della cultura e del sapere: Ulisse il modello dell’eroe omerico, legato ai valori religiosi e civili della tradizione, Palamede è la personificazione di un sapere più moderno scientifico, empirico.
Il primo romanzo autobiografico
L’Odissea è il primo esempio di romanzo autobiografico, perfetto anche per il cinema. È Omero, il poeta, la voce narrante, è vero, ma il poema epico prende il nome da Odisseo, così come l’Eneide sarà la storia di Enea, un’altra comparsa dell’Iliade assurta a gloria epica grazie al calamo di Virgilio. E così come potremmo definire la Divina Commedia una Dantèide (titolo non a caso di un libro di Piero Trellini, del 2021), e la discesa agli Inferi di Orfeo una Orfèide (la mia è un’Orfèide metropolitana). Ulisse non era certo un attore di terzo rango nell’Iliade, tutt’altro; già in quel poema Omero fissa alcuni tratti chiave del futuro Ulisse: in primis l’eloquenza grazie alla quale farà assegnare le armi di Achille ad Agamennone, anziché ad Aiace. Il Laerziade (altro nome Ulisse, in quanto figlio di Laerte e di Anticlea) nel poema sulla guerra di Troia è un personaggio che manifesta lati abietti: per esempio, già alla sua prima comparsa, minaccia, deride e malmena il deforme Tersite che aveva osato esprimere un parere contrario nell’Assemblea dei comandanti greci, osando contraddire Agamennone.
Il nome greco di Ulisse (Odysseus) deriva da un verbo che vuol dire “odiare”. Spicca per le sue doti di eloquenza, ma è anche l’astuto promotore dell’inganno del cavallo, stratagemma con cui i Danai confondono i Troiani che cadono nella trappola e trascinano l’enorme macchina di forma equina (col ventre pieno di soldati) dentro le mura credendola un dono per gli dei (questo famoso episodio verrà narrato da Virgilio, non da Omero). Sempre nell’Iliade, Ulisse compie le sue principali azioni militari in compagnia di Diomede. È un combattente, ma non ha la statura eroica di un Achille o di un Ettore. Con l’Odissea cambia tutto: Ulisse è protagonista assoluto di una nuova epica, quella esistenziale di chi deve combattere da solo contro il fato avverso, in larga parte scatenatogli da un dio (l’Ennosigeo: Nettuno Scuoti-terra) che lo odia, contro le tentazioni più subdole della carne e dei piaceri, delle promesse di immortalità (alla quale rinuncia -cosa per me pazzesca- pur di tornare in patria), contro le mostruosità della natura e dei luoghi. Insomma, Ulisse è nostro contemporaneo. Per Ulisse l’astuzia vale più dell’ira d’Achille perché con Polifemo non te la cavi con le virtù del combattimento e della lotta, tu nano rispetto a un gigante antropofago. Attenzione, però, non mitizziamo troppo Ulisse. In una chiave di lettura già classica, Ulisse è un eroe ambiguo, contraddittorio: abbiamo l’Ulisse ansioso di novità, di scoperte, viaggiatore nell’ignoto, ma anche l’Ulisse pieno di saudade per la famiglia, la moglie, la casa, in una parola la tradizione. Già nell’Odissea emerge chiaramente la personalità multiforme che unisce l’abile comunicatore-manipolatore a quella di un comandante determinato fino alla crudeltà nel raggiungere l’obiettivo finale, che non è solo ritornare a Itaca, ma sterminare i Proci, gli usurpatori che attentano al suo regno e peggio ancora- alla sua amata Penelope.
Un connubio di virtus et sapientia
Dante, nel canto XXVI dell’Inferno, ci consegna un ritratto perfetto, e per i suoi tempi completo, di questo Ulisse sacrilego, ma anche sintesi di una così attuale “libido noscendi”. Lo condanna nella bolgia dei consiglieri fraudolenti (insieme a Diomede) per colpe molto dettagliate che includono il sacrilegio, la persuasione volta al raggiro, l’inganno del Cavallo: “Là dentro (nelle fiamme, ndr) si martira/Ulisse e Dïomede, e così inseme/alla vendetta vanno come all’ira;/e dentro dalla lor fiamma si geme/l’agguato del caval che fè la porta/onde uscì de’ Romani il gentil seme./Piangevisi entro l’arte per che, morta,/Deïdamia ancor si duol d’Achille,/e del Palladio pena vi si porta” (Inf. XXVI, 55-63). È una sintesi esemplare del lato maledetto di Ulisse, che comprende anche l’arte del raggiro sintetizzata da quel “Deidamia ancor si vuol d’Achille”, allusione al fatto -taciuto da Omero, ovviamente- che Ulisse, con il solito Diomede, era riuscito a convincere Achille, nascosto in abiti muliebri dalla madre nell’isola di Sciro per sottrarlo alla guerra di Troia, ad abbandonar Deidamia, la figlia del re Licomede, innamorata di Achille. Ma Dante lo redime poeticamente, nello stesso canto in cui lo condanna, attraverso una narrazione che trasforma Ulisse in un campione di virtus et sapientia, di ansia conoscitiva: e nella rievocazione autobiografica della sua fine, l’Ulisse dantesco non manca di autocritica.
“Fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza”. Versi famosissimi, fra i più celebri di Dante, citati ovunque, spesso e a sproposito, per esaltare la superiorità della conoscenza e del valore nella nobilitazione dell’essere umano e negli ideali di una società. Citati, ma decontestualizzati. Citati, ma per moda. Chi pronuncia quei versi immortali è Ulisse, condannato nella bolgia dei consiglieri fraudolenti insieme a Diomede. Siamo nell’inferno, e la bolgia di Ulisse è una delle più profonde e delle peggiori. Le anime di questi dannati formano uno sciame di fiammelle. Per Ulisse l’associazione analogica fiamma-lingua è un dato simbolico di primaria importanza: Ulisse è anche un mentitore, un persuasore occulto, un abile retore, un incantatore verbale. E infatti quell’appello a “seguir virtute e canoscenza” non è solo un inno alla conoscenza, ma un abile sotterfugio retorico usato da Ulisse per convincere i compagni a seguirlo nella sua ultima, folle, avventura nautica: oltrepassare le colonne d’Ercole e perdersi nell’ignoto dell’oceano.
Ulisse è un Casanova della conoscenza, la personificazione di una “libido noscendi” che, per Dante, all’altezza della Commedia, è l’opposto della vera conoscenza, del sapere. Dante ritiene, in linea con il pensiero mainstream medievale, la “sapientia mundi” inferiore alla vera conoscenza che è orientata al divino, non al terreno. Quindi il “fatti non foste a viver come bruti” va letto e interpretato nel contesto narrativo del canto XXVI: Ulisse pronuncia quei versi come strumento di marketing culturale per piegare le resistenze dei suoi compagni, probabilmente restii a girovagare come ricercatori dell’ignoto, per giunta anziani, ancora all’inseguimento di un chissà-che-cosa. Questa smania di avventura, di “curiositas” un po’ superba, finirà nell’inabissamento successivo all’avvistamento della “montagna bruna”. Ulisse naufraga “come altrui piacque”. Altro che “virtute e canoscenza”! C’è un limite invalicabile. Quel limite è Dio.
Quei versi, così scolpiti nella verità di una sentenza, risuonano autentici oggi, anche se isolati dal loro contesto originario. Ulisse ammanta di “virtute e canoscenza” una sua personale fregola motoria e ipercinetica al viaggio continuo, alla scoperta, all’inquieta insoddisfazione di un uomo malato di novità: l’uomo contemporaneo.
LIBRI
Omero, Odissea, traduzione e cura di Daniele Ventre, Ponte alle Grazie, 2023
Piero Trellini, Dantèide, Bompiani Overlook, 2021
Piero Boitani, Il grande racconto di Ulisse, Il Mulino, 2016
Nikos Kazantzakis, Odissea, Crocetti editore, 2020
Alessandro Baricco, Palamede l’eroe cancellato, pièce teatrale, con Valeria Solarino, 2016
Alessandro Perutelli, Ulisse nella cultura romana, Le Monnier Università, 2006
Enrico Cerni, Giuseppe Zollo, Ulisse parola di leader, Marsilio (Cuoa Business School), 2021
Lascia un commento