Per rispettare l’alternanza di novità e libri già usciti ma sempre interessanti, ritorno a un saggio (La lezione di Enea, Laterza, 2020) di Andrea Marcolongo, scrittrice e giornalista, laureata in lettere antiche a Milano, autrice fra l’altro di La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco (2016), libro che è stato un successo editoriale considerando l’argomento non esattamente popolare. È un pretesto per parlare, seppur brevemente, del divino Enea (figlio di Anchise e Venere), nobile virgulto dei Dardanidi, che non è soltanto l’eroe protagonista del poema di Virgilio a lui intitolato (l’Eneide), ma anche una figura molto diversa da (se non antitetica a) Ulisse, personaggio ben più popolare. La principale differenza tra i due non si può ridurre al mero fatto che, nell’Iliade, appartenevano a schieramenti militari opposti: Ulisse uno dei capi degli Achei, Enea combattente tra le fila dei Troiani. La grande diversità narrativa prima ancora che umana, è che Ulisse aveva una patria alla quale sognava e cercava di ritornare; Enea non ha più una patria perché rasa al suolo dai vittoriosi nemici. Enea deve ricostruirsi una patria ex novo; ed è soprattutto colui che, scampato alla distruzione di Troia, e approdato alle coste italiane (meta finale il Lazio) diverrà condottiero alla guida di un esercito che dovrà, a malincuore, combattere contro le ostili popolazioni locali una guerra sanguinosa ma voluta in qualche modo dal Fato: “si qua fata sinant”, se il Fato lo concede, è un hashtag prediletto da Enea, personaggio ben più consapevole, rispetto a Ulisse, dell’immane forza del destino. E in questo il figlio di Venere e Anchise è assai più vicino alla nostra sensibilità.
Enea è considerato il capostipite dei Romani, il loro avo e colui che ha gettato i semi e posto la prima pietra di quella che sarà, volenti o nolenti, la culla della nostra civiltà. È chiaro sin dai primi i versi del poema virgiliano:
“Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam, fato profugus, laviniaque venit
Litora, multum ille et terris iactatus et alto
Vi superum saevae memorem Iunonis ob iram,
Multa quoque et bello passus, dum conderet urbem,
Inferretque deos Latio, genus unde Latinum
Albanique patres, atque altae moenia Romae”.
“Armi canto e l’uomo che primo dai lidi di Troia
Venne in Italia fuggiasco per fato e alle spiagge
Lavinie, e molto in terra e sul mare fu preda
Di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone,
Molto sofferse anche in guerra, finch’ebbe fondato
La sua città, portato nel Lazio i suoi dèi, donde il sangue
Latino e i padri Albani e le mura dell’alta Roma”
(Eneide, I, 1-7, traduzione Rosa Calzecchi Onesti)
Enea è un “fuggiasco”. Il nostro Pius Aeneas dovette fuggire dalla Troade (oggi la Turchia) per approdare, dopo un periplo non meno complesso di quello compiuto da Ulisse nell’Odissea, prima a Cartagine e poi in Sicilia.
Mi rimarrà sempre impressa la foto di un uomo che, sopravvissuto ai massacri di Srebrenica, si porta sulle spalle il padre. Quella foto potrebbe commentare anche oggi una delle immagini più iconiche del poema virgiliano: Enea che fugge da Troia con il padre Anchise aggrappato alle sue spalle. È un episodio narrato da Virgilio nel secondo libro dell’Eneide uno dei vertici del Poema e della poesia mondiale tout-court. Negli anni Novanta, tra il 1993 il 1995, tradussi alcuni libri dell’Eneide (dal 2° al 7°) di Virgilio, in esametri accentuativi. È stato allora che ho potuto apprezzare ancora di più la poesia di Virgilio, che già avevo studiato al Liceo Classico traducendo fra l’altro il terzo libro dell’Eneide, non il migliore del poema virgiliano, ma uno dei più ricchi di episodi cruciali (Polidoro, le Arpie, l’incontro con Andromaca, i Ciclopi), forse un po’ penalizzato dalla sua immediata vicinanza a due grandi libri, il secondo, dominato dalla sventurata fine di Troia, conquistata dai Greci grazie allo stratagemma del cavallo, e il quarto che narra la tragedia di Didone, la regina di Cartagine invano innamorata di Enea.
L’Eneide si può dividere in due blocchi narrativi (o esadi): i primi sei libri sviluppano il tema degli errores (peregrinazioni) di Enea nel Mediterraneo; gli altri sei (VII-XII) narrano le vicende dei Troiani in terra italiana: protagonista è la guerra contro i Rutuli guidati da Turno. L’Eneide è un originale mix di Iliade e Odissea che ripropone in una nuova chiave poetica l’epopea delle origini di Roma già narrata, ma con esiti artistici più modesti, da Nevio ed Ennio: Virgilio rielabora le tradizioni letterarie omeriche e latine in un poema che porta la firma inconfondibile della sua personalità poetica. È evidente che i primi 6 libri richiamano l’Odissea, gli altri 6 l’Iliade, ma, al di là degli immancabili tributi al genere dell’epica (per esempio gli dei che si schierano e intervengono nella trama degli eventi umani), Virgilio non replica meccanicamente un modello, ma lo rivive con una sensibilità più moderna, perfezionando e sviluppando temi e situazioni scarsamente trattate nei poemi omerici: penso al motivo della passione amorosa, cui Virgilio dedica un intero libro (il quarto) nel quale si staglia la figura tragica della regina Didone1; e alla discesa negli Inferi nella quale Virgilio crea un nuovo mondo sotterraneo, appena abbozzato da Omero (Odissea XI). La lunghezza stessa del poema virgiliano (12 libri contro i 24 di Iliade e Odissea) riflette una scelta di sintesi e rapidità che è anche il segno di una poetica più aggiornata ai canoni alessandrini.
Se dovessi pubblicare la mia traduzione in esametri del secondo libro dell’Eneide saprei già quale immagine usare per la copertina: proprio quella foto, cui ho accennato, che ritagliai (credo nel 1995) dal settimanale inglese The European, dell’esule bosniaco in fuga da Srebrenica, con un vecchio parente aggrappato alle sue spalle. Appena vidi quella foto corsi subito con la mente all’episodio di Enea che, in fuga da Troia in fiamme, sostiene sulle sue spalle il vecchio padre Anchise.
Il secondo libro dell’Eneide è uno dei capolavori della poesia in assoluto. È il libro nel quale Enea, nella reggia di Didone, comincia a rievocare le dolorose vicissitudini (“Infandum iubes renovare dolorem”, dice Enea a Didone che vuole conoscere le vicende della caduta di Troia) della fine proditoria (l’agguato del cavallo) di un grande impero. Memorabile l’incipit del canto:
“Tacquero tutti ed ognuno teneva lo sguardo
fisso su di lui. Poi dall’alto letto disse il padre Enea:
“Regina, tu vuoi ch’io ricordi un dolore inesprimibile,
come i Danai distrussero le fortune di Troia e il regno
degno di pianto, e i tristissimi fatti che vidi io stesso
e dei quali fui grande parte. Chi, raccontando tali vicende,
soldato dei Mirmidoni o dei Dolopi o di Ulisse crudele,
tratterrebbe le lacrime? E l’umida notte dal cielo
già discende e le stelle declinanti suggeriscono il sonno.
Ma se così tanto ami conoscere i nostri casi
e brevemente ascoltare l’estremo patire di Troia,
anche se inorridisce la mente al solo ricordo e fugge al pianto,
comincerò”.
(Aen. II,1-13)
Perché oggi non si parla molto di Enea? Perché il più grande poema della tradizione classica latina, e uno dei libri ancora oggi più attuali e studiati, un libro “seminale” anche per gli scrittori e i poeti contemporanei, è un po’ evitato come se fosse imbarazzante ricordare che l’Italia, in un certo senso, l’ha fatta Enea? E infatti, se ci pensate, di statue di Enea non ce ne sono poi tante: una delle poche è il piccolo monumento di Enea che orna piazza Bandiera a Genova, opera di Francesco Baratta (1726). “Si tratta -scrive Andrea Marcolongo- di una delle pochissime statue dedicate all’eroe troiano che si trovano in Italia -e questo la dice lunga sul rapporto, misto di dimenticanza e fastidio, che da sempre si prova nei confronti di Virgilio, visto che stando all’Eneide, Enea l’Italia l’ha fondata ex novo. Fu contemplando il monumento genovese dell’esule che incede affaticato con il padre sulle spalle e il figlioletto per mano che Caproni decise di raccogliere tre poesie dedicate alla prostrazione dell’Italia nel secondo dopoguerra sotto il titolo Il passaggio di Enea (1956). Ed è proprio rileggendo il passo riportato sopra -e finalmente capendolo mio malgrado- che l’Eneide mi è diventata all’improvviso indispensabile. Così tanto che, in certi giorni di aprile, mi sono chiesta come avrei fatto senza”. Il passo riportato cui allude la scrittrice è quello pubblicato da Giorgio Caproni nel 1949 su “La fiera letteraria”, intitolato “Noi, Enea”.
Questa strana difficoltà dell’Eneide a fissarsi nella memoria collettiva si può constatare anche nel cinema e nella televisione. Quanti ricordano l’Eneide di Franco Rossi, serie televisiva del 1971-72? Franco Rossi è lo stesso regista dell’Odissea (1968), serie televisiva ben più fortunata, credo, come ascolti. Quanti ricordano La leggenda di Enea (1962) di Giorgio Rivalta, diretta continuazione de La guerra di Troia, di Giorgio Ferroni (1961)? Ulisse è indubbiamente più famoso e popolare di Enea esattamente come l’Odissea è più nota e letta dell’Eneide. Forse è questo il punto. E bisogna ripensare al ruolo, narrativo, umano e simbolico, di Virgilio, nella Divina Commedia per ricordarsi quanto importante è stato l’autore dell’Eneide per la cultura medievale e umanistica. Dante Alighieri lo ha scelto come guida nei primi due regni dell’oltretomba, e l’incontro tra i due poeti nella selva selvaggia resta sempre un momento lirico e narrativo di straordinario potere evocativo. Ma non finirò mai di rileggere i canti del Purgatorio nei quali Stazio, l’altro grande poeta epico latino, riconosce a sua volta Virgilio non solo come maestro di stile, ma come stimolo alla conversione al cristianesimo:
“Al mio ardor fuor seme le faville,
Che mi scaldar, della divina fiamma
Onde sono allumati più di mille;
dell’Eneida, dico, la qual mamma
Fummi e fummi nutrice poetando:
Sanz’essa non fermai peso di dramma”
Così dice Stazio nel canto XXI. E nel canto successivo aggiunge:
“Tu prima m’invïasti
Verso Parnaso a ber nelle sue grotte,
E prima appresso Dio m’alluminasti.
Facesti come quei che va di notte,
Che porta il lume dietro e sé non giova,
Ma dopo sé fa le persone dotte.
(…)
Per te poeta fui, per te cristiano”.
Sarà anche una leggenda quella della conversione di Stazio ispirata dalla lettura di Virgilio (precisamente dei primi versi della quarta ecloga). Ma nessuno come Dante ha elevato su un gradino così elevato l’autore dell’Eneide. “Si scrive Divina Commedia, si legge Eneide”. L’immaginario narrativo creato dall’Eneide e sublimato nella Commedia di Dante, in un’epoca in cui la lingua greca non era più nota in Europa e in cui il termine “classico” quasi coincideva con Virgilio stesso: “Enea, e non Achille né Ulisse, Roma e non Itaca, Didone e non Elena, Ascanio e non Telemaco, Turno e non Paride erano al tempo l’incarnazione degli eroi e delle eroine classiche -su di loro si cucivano nuove storie. Dalle opere di Virgilio e non da Omero -pur definito da Dante ‘poeta sovrano’ (Inf.IV, 88) – che nessuno era in grado di leggere, furono tratti per secoli i miti antichi l’onomastica, la geografia, l’arte e qualche parvenza di scienza che pittori, poeti, musici, architetti e artisti di ogni sorta replicavano per tutto il Medioevo fino all’avvento dell’umanesimo”.
Abbiamo citato questo brano dal capitolo dedicato alla ricezione dell’Eneide nella letteratura successiva. Ed è quasi incomprensibile ricordare che uno dei detrattori di Virgilio nell’Ottocento fu proprio Giacomo Leopardi che nello Zibaldone non risparmia critiche all’Eneide in favore dell’Iliade e dell’Odissea. Ironia della sorte, le spoglie di Leopardi riposano poco lontane dalla tomba di Virgilio, nello stesso parco di Piedigrotta a Napoli.
Nel Novecento sarà Hermann Broch, scrittore austriaco naturalizzato americano, a ridare voce all’autore dell’Eneide, nel romanzo La morte di Virgilio pubblicato nel 1945 (in Italia solo nel 1962) dove immagina gli ultimi giorni del poeta ormai morente durante il viaggio dalla Grecia a Roma, tormentato dall’ansia di non esser riuscito a completare l’Eneide. Sì, perché Virgilio, poco prima di morire, aveva dato ordine a due suoi amici di bruciare l’Eneide. Per fortuna nostra, i due amici, Lucio Vario e Plozio Tucca, disubbidirono.
1 Per la vicenda di Didone mi sembra più evidente il richiamo di Virgilio ad Apollonio Rodio (Le Argonautiche).
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