Il film La vita agra esce nell’aprile 1964, circa due anni dopo la prima edizione (pubblicata da Rizzoli) dell’omonimo romanzo di Luciano Bianciardi (1922-1971), che con La vita agra trovò la sua consacrazione di scrittore. Lo stesso Bianciardi si stupirà del successo, considerando che La vita agra è -anche per sua stessa ammissione- il diario di un’incazzatura a 360 gradi su tutto il sistema (“Datemi il tempo, datemi i mezzi, e io toccherò tutta la tastiera -bianchi e neri- della sensibilità contemporanea. Vi canterò l’indifferenza, la disubbidienza, l’amor coniugale, il conformismo, la sonnolenza, lo spleen, la noia e il rompimento di palle”), incazzatura su Milano, sul boom economico e la società dei consumi, sull’alienazione delle persone e dei rapporti. Una critica totale al sistema sul quale si reggeva il “miracolo italiano”, di cui Bianciardi fu schietto polemista prima ancora di Pier Paolo Pasolini. La vita agra è un romanzo profetico, attualissimo, sempre godibile. Eppure, il film di Carlo Lizzani è altra cosa rispetto al romanzo. Stranamente Luciano Bianciardi non protestò molto.
Come trasformare la rabbia in commedia
Riprendo alcuni passaggi dalla biografia (imprescindibile) scritta da Pino Corrias (Vita di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano): il film è «scritto e diretto a tempo di record. E si vede. Dietro alla macchina da presa, Carlo Lizzani, quarantenne (“alto, bruno, nasuto e occhialuto”, scriverà Bianciardi, ribattezzandolo Lizzani-prete), esordio all’ombra di Rossellini (Germania anno zero) raccontatore senza pretese con un buon precedente di film tratto da un successo letterario, Cronaca di poveri amanti di Vasco Pratolini, un futuro da “regista di cronaca” con film-documento come Banditi a Milano (1968), Torino nera (1972), San Babila: ore 20 (1976)».
Lizzani arriva a Milano con la produzione assicurata di Nino Crisman, più i contratti dei due protagonisti: Ugo Tognazzi e Giovanna Ralli che credono nel progetto. Sceneggiatori: Luciano Vincenzoni, Sergio Amidei, e Marcello Marchesi. Lizzani incontra Bianciardi al Bar Giamaica (che nel romanzo si chiama Bar delle Antille). Tutto ok. Luciano è collaborativo e non muove critiche. “Con lui è stato facile lavorare, anche in fase di sceneggiatura -racconta Lizzani- (…) Luciano non faceva nessuna resistenza. Stavamo ore e ore intorno a un tavolo a scrivere, e lui diceva bene a questo, bene a quest’altro. Sembrava che non gli interessasse granché”.
In realtà, Luciano Bianciardi lascia fare. Forse anche troppo. «E i tre sceneggiatori (più Lizzani) pescano da La vita agra, ma anche da L’integrazione, trasformano la rabbia in commedia, il grottesco in umorismo. Il protagonista si chiama Luciano Bianchi, non è grossetano, ma padano, e ha le labbra sottili di Tognazzi, facili a piegarsi nel sorriso di chi dice sì (per italica furbizia). Lei, Anna, è romana e “compagna”, ma chissà perché giornalista, arrivata a Milano per una manifestazione operaia. Incontra lui per strada, ai bordi del corteo, subito prima dei candelotti. Il primo bacio se lo danno per sfuggire alla Celere, poi si fidanzano davvero. E fanno una vitaccia. Bar fumosi, pensioncina, un pezzo di formaggio in due, macchina per scrivere a tutte le ore, ma non si capisce per scrivere cosa. Comparsata di Jannacci con chitarra. Comparsata delle tre sorelle Pirovìni (vere, emozionate, quando si trattò di girare). Comparsata dei pelotari baschi. Niente risse verbali per il sonnolento padano, ma grattacapi da parodia per le tasse e le cambiali da pagare. Qualche incertezza nella professione intrapresa per caso: manco a dirlo, il pubblicitario. I suoi slogan (“Il signore sì che se ne intende”, “Basta la parola”, tutta farina del sacco di Marcello Marchesi) hanno successo. Il protagonista fa carriera, trasloca in un appartamento moderatamente fornito di elettrodomestici. Arriva la moglie legittima con il bambino. Anna è delusa e riparte. Luciano Bianchi la accompagna al treno, torna a casa. Lì, la famiglia ricomposta assiste, alla finestra, all’esplosione del Natale milanese: fuochi d’artificio e luci sui torracchioni del centro. Fine».
Due chiose necessarie: le sorelle Pirovìni erano le proprietarie di una famosa trattoria in Brera, dove affluiva il variegato subset di artisti e artistoidi, della Milano tra gli anni Cinquanta e Sessanta. I pelotari baschi sono tre personaggi de La vita agra che vivono nella stessa pensione gestita in Brera dalla signora Tedeschi, e dei quali Bianciardi parla diffusamente nel suo romanzo.
Il misterioso Torracchione
A proposito di “torracchioni” (ironico sinonimo di grattacieli), quello che il protagonista de La vita agra (il romanzo) vuol far saltare in aria, in quanto sede dell’azienda, la Montecatini, proprietaria della miniera nella quale erano morti 43 lavoratori (la strage di Ribolla, 4 maggio 1954), viene identificato nel film di Lizzani con la Torre Galfa, un quasi gemello del “Pirellone” che, fin quando non è stato eretto il super-grattacielo di Regione Lombardia, ha mantenuto il record di edificio più alto di Milano; e, quando fu costruito, più alto d’Europa. Ma la Torre Galfa non è il famoso e misterioso Torracchione. Se volete saperne di più, leggete, oltre a Pino Corrias, il capitolo I torracchioni nel libro A Milano con Luciano Bianciardi, di Gaia Manzini.
Ironia del fato, una decina d’anni dopo la pubblicazione del romanzo di Bianciardi, Giangiacomo Feltrinelli verrà trovato morto (il 14 marzo 1972) “saltato in aria per un errore di innesco della carica esplosiva che stava piazzando, un attentato che avrebbe tolto la corrente a mezza Milano”.
Quando uscì La vita agra, Bianciardi viveva e lavorava a Milano dal 1954. Aveva già pubblicato Il lavoro culturale (1957) e L’integrazione (1960) ed era un noto e bravissimo traduttore dall’inglese per Feltrinelli, Mondadori, Rizzoli, Einaudi, Frassinelli, di scrittori americani fra i quali Saul Bellow, Stephen Crane, John Steinbeck, Aldous Huxley, William Faulkner, Somerset Maugham, Norman Mailer, Jack Kerouac; e -last but not least- Henry Miller, scrittore da cui era ossessionato, come ricorda anche Carlo Ripa di Meana, grande amico di Bianciardi, che gli dedica La vita agra. Ricordiamo che Bianciardi tradusse per Feltrinelli i due Tropici (Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno), cioè i due romanzi più famosi di Henry Miller, ribattezzato da Bianciardi Enrico Molinari: la traduzione dei Tropici -più o meno contemporanea alla stesura de La vita agra– fu per lo scrittore grossetano un fascinoso tornado stilistico e narrativo; e da una simile tempesta, diceva Bianciardi, ne esci almeno con un raffreddore: La vita agra è infatti il più milleriano dei romanzi italiani.
La vita agra ebbe molto successo. Nel dicembre 1962 il libro è già alla quarta edizione, le vendite si avvicinano alle 20.000 copie, hanno ceduto i diritti per la traduzione in inglese, De Laurentiis ha chiesto di trattare i diritti cinematografici per il film che uscirà, regia di Lizzani, nel 1964; nello stesso anno, Bianciardi lascia Milano per trasferirsi nella più tranquilla Sant’Anna di Rapallo (una scelta criticata o non compresa da molti suoi amici) dove prosegue la sua attività di traduttore e collaboratore con diversi quotidiani, fra cui L’Unità e Il Giorno.
La grande accoglienza riservata al romanzo non sarà foriera di un’evoluzione positiva nella vita di Luciano. La cosa strana è che il culmine del successo coincide quasi con l’inizio della parabola discendente di Bianciardi, che si concluderà con la sua morte a 49 anni. A Milano. Sì, perché nel frattempo era ritornato nell’odiosamata città del panettùn, dei ragionieri, degli eterni cantieri aperti. Ma Milano non la lasci facilmente: è una droga. Forse il successo commerciale ha accentuato un conflitto interiore tra la sua vocazione polemica e sempre-contro, e le lusinghe dell’integrazione in un sistema a cui lui, soprattutto in quel romanzo, non risparmia critiche. Un esempio di queste contraddizioni è il rifiuto di una collaborazione con il Corriere della Sera, offertagli da un entusiasta Indro Montanelli, che aveva letto e apprezzato La vita agra: Bianciardi non firmò un contratto da trecentomila lire al mese (oggi circa 5.000 euro, per scrivere due pezzi al mese!), e non perché gli fosse antipatico Montanelli (anzi, Indro fu il primo a recensire La vita agra proprio sul Corriere della Sera), ma perché, forse, si sentiva più libero scrivendo per riviste come ABC, Playmen, Le ore (ricordiamo che solo dal 1971 questo periodico sterza sul genere erotico), Il Guerin Sportivo (allora diretto da Gianni Brera) e altre testate certamente meno illustri e famose del Corriere. In realtà, «come giustamente ha osservato Gian Carlo Ferretti, Bianciardi preferisce saggiamente accettare la proposta di collaborazione con una testata giovane, ma importante e già prestigiosa, come Il Giorno, che sembra offrirgli un contesto complessivamente più aperto e libero» . (Carlo Varotti, Luciano Bianciardi, La protesta dello stile).
La trilogia della rabbia
La vita agra fa parte di una “trilogia della rabbia” che è anche una “trilogia della vita”. Il lavoro culturale, L’integrazione e La vita agra, riuniti in un volume (edito nel 2022 da Feltrinelli), raccontano anche tre fasi esistenziali di Luciano Bianciardi: ne Il lavoro culturale, le esperienze e le ambizioni di un intellettuale, ex promessa del calcio (abbandonato a malincuore per infortunio), alla ricerca di un ruolo costruttivo nella provincia natia, Grosseto, ribattezzata Kansas City; ne L’integrazione, il trasferimento a Milano per unirsi alla nuova casa editrice appena fondata da Giangiacomo Feltrinelli; e ne La vita agra, il più “cattivo” dei tre romanzi, la dura vita quotidiana a Milano, tra affitti da pagare, lavoro che c’è e non c’è, bohème, traduzioni, incazzature e invettive.
La vita agra, in particolare, rientra in quel genere di narrativa che possiamo definire autobiografico-confessionale: un genere che trova in Henry Miller uno dei maestri del XX secolo, e i due Tropici di Miller (Tropico del Cancro e Tropico del Capricorno) sono anche una delle prime e più note traduzioni di Bianciardi, ancora valida e ripubblicata. La vita agra non è quindi semplicemente un romanzo: è sfogo di un’anima esaurita dalle ‘tafanature’ dell’esistenza, è pamphlet contro la società dei consumi in pieno boom economico, è diario di un’incazzatura verso una città, Milano, che è “una gran macchina caotica, senza cielo sopra e senza anima dentro” come scrive lo stesso Bianciardi in una lettera a Mario Terrosi del 4 febbraio 1961. E d’altronde una delle possibili definizioni ce la dà proprio l’autore ne La vita agra.
“Lo so, direte che questa è la storia di una nevrosi, la cartella clinica di un’ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla. Direte che se finora non mi hanno mangiato le formiche, di che mi lagno, perché vado chiacchierando?
È vero, e di mio ci aggiungo che questa è a dire parecchio una storia mediana e mediocre, che tutto sommato io non me la passo peggio di tanti altri che gonfiano e stanno zitti. Eppure proprio perché mediocre a me sembra che valeva la pena di raccontarla. Proprio perché questa storia è intessuta di sentimenti e di fatti già inquadrati dagli studiosi sociologi economisti, entro un fenomeno individuato, preciso ed etichettato. Cioè il miracolo italiano”.
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